Più d’una volta Santos Zunzunegui, insegnante e storico del cinema basco, ha partecipato a convegni a Udine – fra i quali vorrei ricordare il grande convegno wellesiano del 2006 (Welles è uno dei punti nodali della sua riflessione sul cinema). Tanto più fa piacere vedere ora in libreria una sua raccolta di saggi: Lo sguardo plurale, a cura di Maria Cristina Addis, Bulzoni, pp. 264, € 20. Scopo del libro è di riflettere sulla nozione di modernità.
Le sezioni coprono l’evoluzione del cinema com’è sistematizzata in tre momenti da Serge Daney, che è uno dei teorici di riferimento dell’autore (il primo è senza dubbio Gilles Deleuze): l’età d’oro del cinema classico, ossia il cinema come immaginaria finestra sul mondo (qui alla vecchia théorie des auteurs si sostituisce l’eloquente immagine dei film come cattedrali gotiche, opera collettiva per eccellenza); l’epoca della “perdita dell’innocenza”, la presa di coscienza che il cinema è pura arte dell’immagine; e il terzo è il momento attuale, dominato per Zunzunegui dalla “palude dell’audiovisivo”. Contro il cinema usualmente definito postmoderno (“puro deposito di immagini”), Zunzunegui rivendica quegli autori di resistenza che “si pongono il problema di ereditare la tradizione rinnovandola creativamente”.
Naturalmente non è necessario concordare con la visione dell’autore (chi scrive si dispiace che la sua pur coerente presa di posizione gli impedisca di applicare al cinema commerciale contemporaneo la nozione, a lui assai cara, di bricolage) per apprezzare questa serie di saggi felici e illuminanti, e anche impreziositi da una vis didactica che gli fa onore.
Si apre con il “quasi classico” Gregory La Cava (riportando opportunamente all’attenzione un regista ingiustamente poco considerato); segue un saggio su Val Lewton, il grande produttore degli horror RKO, che bene mette in rilievo il carattere di meta-testo sotteso ai suoi film. Seguono Renoir, Buñuel (esaminato come sguardo filosofico, “pensiero figurativo”) e Godard, che per Zunzunegui incarna con À bout de souffle la frattura stessa della modernità. Quindi Bertolucci e Kaurismäki, dalla dimensione “statuaria”, Lanzmann, Marker, e passando per De Oliveira e Straub-Huillet si arriva alla grande triade giapponese Kurosawa, Ozu, Mizoguchi in tre bellissimi saggi, onde rincresce che quest’escursione nei territori orientali non prosegua; chi scrive avrebbe desiderato un capitolo su un autore che certamente è nelle corde di Zunzunegui quale Hou Hsiao-hsien; ma è pur vero che un libro non può comprendere tutto. Il volume si conclude con una sezione intitolata “Questioni di teoria” – ma lo spazio è tiranno più del temuto Harry Cohn della Columbia, e dovremo fermarci qui.