SPECIALE JACQUES TATI
Caro zio
Per il novenne Gérard Arpel, figlio trascurato di una ricca famiglia di industriali produttori di plastica, la vita nella villa ultramoderna dei genitori, dove l’ordine, la pulizia e l’aggiornamento tecnologico regnano incontrastati, è fonte di indescrivibile noia. Molto meglio ritrovarsi e perdersi con il buffo Monsieur Hulot, lo zio materno, che vive solo in un quartiere popolare e del progresso conosce appena l’abc.
Torna al cinema Mio zio, terzo lungometraggio di Jacques Tati regista, il primo a colori, vincitore dell’Oscar nel 1959 dopo innumerevoli riconoscimenti internazionali, a partire dal Festival di Cannes dove l’anno precedente fu premiato dalla giuria. A quasi sessant’anni di distanza, l’opera conserva la sua irriducibile carica profetica, riverberando, al pari di Chaplin, Keaton, Laurel & Hardy, dell’aura universale e senza tempo del corpo comico del suo autore protagonista. In un’intervista sul film di qualche anno fa, David Lynch sottolineava il primato coreografico di Tati, la sua capacità di gestire i tempi e di collocare il movimento dentro uno spazio pensante, anche quando racconta l’insensatezza del benessere. Di questo film dove, come nei precedenti e nei successivi, al centro dell’azione non c’è la maschera del primo piano, ma una figura quasi sempre intera, spiazzata dal rapporto con la tecnologia e soprattutto dalla sua mancanza di senso, rimane impressa nella mente dello spettatore la banda sonora fatta di squilli, fischi, spie improvvise, evidente riflesso dell’insopportabile disumanizzazione delle macchine domestiche, create per proteggere, valorizzare, connotare in un senso o in un altro un’esistenza già standardizzata dai propri apparati. Anche per questo gli effetti sonori sono allo stesso volume dei dialoghi, e le voci si avvertono, si intuiscono indistintamente, come in un aeroporto o in una stazione. Lo spunto del film, quasi ecologista con grande anticipo, sembra riconnettere le urgenze dell’infanzia a quelle di uno sguardo poetico: del resto la relazione tra il piccolo Gérard e Monsieur Hulot si gioca tutta sull’ansia condivisa di una spontaneità altrove soffocata, e che Hulot incarna in ogni suo passo, non tanto come vassallo dell’anticonformismo, quanto come testimone del bisogno di rimanere integro rispetto alla realtà. Inutili i tentativi della famiglia di accasarlo o ammogliarlo, in questo microcosmo urbano fatto di cancelli, pulsanti, fontanelle automatizzate: con il suo appartamento nei quartieri popolari e la sua bicicletta, Hulot personifica la speranza di un mondo dove le cose scorrano senza artificio, e senza censura dei desideri più liberi e gioiosi.
Mio zio [Mon oncle, Francia 1958] REGIA Jacques Tati.
CAST Jacques Tati, Jean-Paul Zola, Adrienne Servantie, Jean Pierre Zola.
SCENEGGIATURA Jacques Tati, Jacques Lagrange, Jean L’Hôte. FOTOGRAFIA Jean Bourgoin. MUSICHE Frank Barcellini, Alain Romans.
Comico, durata 110 minuti.