Con l’esordio di Tati nella regia di un lungometraggio, Giorno di festa (1949), il cinema comico, non solo quello francese, si avvia verso una rivoluzione. Diventa adulto. Tati rielabora burlesque, music hall e comiche del muto, in uno stile attoriale e registico personalissimo, e li congiunge alla sua comicità di osservazione, in poesie filmiche che gridano una visione del cinema e del mondo.
Tra le sue influenze primarie, cita soprattutto Little Tich et ses “big boots” di Alice Guy, ma ammira Ophüls e Bresson. Tati è, dunque, l’autore – proprio nell’accezione dei critici dei Cahiers, che ne hanno scritto frequentemente e ne hanno fatto un degno rappresentante della loro “politique” – che rappresenta l’anello di congiunzione tra il cinema delle origini e la modernità dell’immagine-tempo deleuziana. Non a caso, c’è chi lo ha accostato ad Antonioni.
È, senza dubbio, un geniale innovatore. Si pensi a come, riducendo al minimo i dialoghi pronunciati dai suoi personaggi, tra un incomprensibile patois e un fastidioso brouhaha, ha assegnato un ruolo centrale al sonoro, come vettore di contestazione e guida per lo spettatore, sperdutosi nel labirinto dei long take, dove i colori sono segnali di indicazione per lo sguardo e la massima visibilità è vana, come uno specchio deformante. “Bisogna che siano i miei attori a muoversi e non la mia macchina da presa a spostarsi”, precisa Tati, nell’intervista concessa a Bazin e Truffaut.
A una costruzione narrativa tutt’altro che tradizionale (“la costruzione drammatica non conta nulla in confronto all’immagine”, afferma Tati), a un racconto sfilacciato ma solo apparentemente anarchico, corrisponde in Tati una regia che privilegia le inquadrature fisse, il deep focus e il campo lungo. Nel capodopera in 70 mm e stereofonia Playtime (1967), in cui come scrive Morandini “Tati ha messo in immagini la crisi spirituale del suo secolo”, la complessità del plan arriva a contenere un numero impressionante di gag simultanei, ciascuno dei quali è agito, o meglio è subito, da un personaggio differente, con un timing di precisione sovrumana (“Il gag è il timing”, specificava Mack Sennett, che se ne intendeva).
Come lo definisce Truffaut, un “controllo assoluto”, autoritario e perfezionistico, analogo a quello di Bresson e che va di pari passo con la democratizzazione del comico, la soppressione del vedettariato del protagonista principale. Non-umanista, interessato all’essere umano in quanto specie animale, come fa notare Serge Daney, lontano da ogni psicologismo e intellettualismo, Tati comprende con l’intuizione profetica di un alieno che nella società contemporanea, dominata dalla tecnologia, siamo tutti diventati comici. Solo liberando la comicità che è in ogni individuo, l’uomo può riuscire a prevalere sulle cose. Altrimenti, ci ritroveremo inermi come David Bowman sulla Discovery One.