SPECIALE MADE IN CHINA
L’impero di se stesso
Perché uno Speciale dedicato alla cinematografia cinese contemporanea? Perché, con l’Orso d’Oro a Fuochi d’artificio in pieno giorno (titolo italiano che sembra fuorviante, e invece è la corretta traduzione dell’originale Bai Ri Yan Huo) e con la realizzazione di Al di là delle montagne ci sembra si sia arrivati ad un punto d’approdo. La ferrea censura cinese, lo sappiamo, non sente ragioni: la Settima Arte, vista come mera industria al soldo della Repubblica Popolare, deve “stordire” e svagare le masse.
Al bando i turbamenti derivanti dall’horror o dal thriller, ad esempio: niente fantasmi, niente omicidi e niente crisi di identità per le strade di Beijing o Shanghai. Al bando tutto ciò che non è ammesso dal partito, e di conseguenza viva Chinawood, il prodotto fantasy o “marziale” totalmente scollegato dalla realtà che riempie le sale e si sciacqua con l’ultimo sorso di China Cola sui titoli di coda. Chi si mette in testa di fare cinema in Cina può intraprendere – ma si tratta di una necessaria esemplificazione – due sole vie: o l’accettazione pedissequa dei dogmi statali (che ben poco ha a che fare con l’idea di compromesso) o la ricerca della collaborazione coi Paesi esteri, col rischio dell’eterno ostracismo. Un cammino – quest’ultimo – che può conoscere anche “redenzione”, come dimostra l’emblematico caso di Zhang Yimou, regista al quale non a caso affidiamo l’apertura del nostro piccolo focus. Il suo Lanterne rosse, che ha permesso alla Cina di affacciarsi alla ribalta cinematografica portando a casa un Leone d’Argento a Venezia 48, è stato proibito in patria per le sue tematiche “scomode”. La storia del cineasta Zhang scolora nella leggenda: la sua carriera affastella l’una sull’altra opere “necessarie” (Hero, La foresta dei Pugnali Volanti, La città proibita) e opere sempre “di regime” ma in cui si fa strada una riflessione critica (La locanda della felicità, Lettere di uno sconosciuto). Forse è per questo che il cinema Made in China degli ultimi anni risulta così stimolante: perché si apre a più livelli di interpretazione, perché contiene al suo interno “moltitudini”. È con questo spirito che abbiamo scelto Le biciclette di Pechino e Peacock, pellicole che sembrano narrare “semplicemente” la quotidianità cinese e che invece evidenziano il crollo dei sogni di gloria e di espansione dell’economia nazionale. Seguendo il filo rosso della catastrofe umana e sociale dettata “dall’emulazione del libero mercato in condizioni di monopolio dirigista” (scrive Giona A. Nazzaro su Film Tv) abbiamo poi privilegiato l’abbacinante incubo di Bing Wang, The Ditch, assimilabile all’altrettanto doloroso Behemoth di Zhao Liang, passato all’ultima Mostra del Cinema. E in cima a questa manciata di titoli (gli esclusi per necessità di spazio meritano almeno una menzione: Addio mia concubina, Letter from an Unknown Woman, Loach is Fish Too, Spring Fever, Aftershock) mettiamo il coraggioso e feroce Jia Zhang-ke, che con Al di là delle nuvole ci chiede di osservare il dito e subito dopo la luna: perché nell’apparente ingenuità del tema ricorrente Go West – cantata dai Pet Shop Boys – c’è tutto lo scontro con l’identità mancante della propria nazione, con l’eterna ricorrenza del passato che si sovrappone ad un futuro dal quale non c’è scampo.