Emilia Race
C’è sempre un’ambivalenza nel prendere come punto di riferimento un modello espressivo. La crescita del cinema medio italiano di questi ultimi anni è passata attraverso la lezione di quello statunitense e l’atteggiamento che quest’ultimo ha da sempre avuto nei confronti del cinema di genere. I vari Sollima, Cupellini, Manetti Bros., Incerti, Mainetti si sono concessi la libertà dell’intrattenimento partendo sempre da una base perfettamente codificata, mantenendo alcuni dei paradigmi di un cinema d’impegno europeo. A questa schiera di registi va ad aggiungersi anche Matteo Rovere.
Veloce come il vento affronta un genere quasi del tutto assente nella cinematografia italiana: il motor movie votato principalmente all’azione adrenalinica delle corse, quelle di Gran Turismo intraprese dalla giovane Giulia assieme al padre, molto da vicino come quelle viste in Rush. Se questa facciata rappresenta quella più prevedibile nel genere, ben resa dalla regia enfatizzata da ralenti e dinamica di Rovere, Veloce come il vento inserisce fin dall’inizio un elemento meno scontato, la morte per infarto del padre di Giulia alla prima gara accompagnata da una preghiera con la voce di entrambi. La vita e la morte sull’asfalto: in questo caso non è un incidente a suggellare l’unione, come spesso accade, ma una morte naturale che eleva, e in certo senso spiritualizza, l’evento sportivo in sé. La morte sopraggiunge non per la ricerca adrenalinica del pericolo, ma per il naturale prosieguo della vita, e quella di Giulia e suo padre sono le corse. L’Emilia e la velocità, le Lamborghini e le Porsche in mezzo a casolari di campagna: anche questo è Veloce come il vento. Quello che sembra un ossimoro, rappresenta invece un connubio reale e viscerale tra un territorio e i motori. L’adrenalina della perdita del controllo segue di pari passo la forte dizione emiliana dei suoi protagonisti, rappresentando l’elemento più personale in una pellicola che, seppur legata a un modello, lo trascende. Veloce come il vento principalmente racconta due storie di riscatto sociale, che rappresentano maggiormente la sua eredità nei confronti del cinema statunitense: quella di Giulia, ritrovatasi improvvisamente sola con un fratellino a carico, e quella del fratello maggiore Loris, ex leggenda del rally e ora tossicodipendente. È il racconto di due emarginati che lottano per un riscatto comune, tradendo la forte impronta retorica made in Usa per l’importanza di un obiettivo: salvare la propria casa dall’ipoteca fatta per gareggiare al campionato di Gran Turismo. Il loro rapporto nasce in maniera utilitaristica, lui come improbabile allenatore e lei come scettica allieva, e cresce affettivamente di pari passo al loro riscatto, sportivamente e socialmente. Questo dona una solidità narrativa che, unita all’efficace regia, fanno di Veloce come il vento una pellicola concreta e riuscita, ma una domanda cresce per tutta la sua durata, un interrogativo che non è circoscritto alla pellicola di Rovere ed è direttamente collegata a quella ambivalenza di cui si parlava all’inizio: questo modello può essere utilizzato come spunto senza perdere una propria identità? Veloce come il vento lo fa attraverso la sua connotazione territoriale apparentemente ossimorica, e quella cadenza emiliana che ne fanno una piacevole pellicola di globalismo provinciale.
Veloce come il vento [Italia 2016] REGIA Matteo Rovere.
CAST Matilda de Angelis, Stefano Accorsi, Roberta Mattei, Paolo Graziosi.
SCENEGGIATURA Matteo Rovere, Filippo Gravino, Francesca Maniera. FOTOGRAFIA Michele D’Attanasio. MUSICHE Andrea Farri.
Drammatico/Azione, durata 119 minuti.