I do not take tonight for granted
Strani gli Oscar: tornasole di un gusto non completamente ascrivibile alle preferenze del “grande pubblico”, rappresentano un avvenimento imprescindibile per moltissimi spettatori televisivi, tanto cinefili quanto appassionati, impegnando le ventiquattro ore dei più fra dichiarazioni di preferenza, sedicenti elucubrazioni e scommesse reali o, più prudentemente, virtuali.
L’ottantottesima edizione degli Academy Awards si è conclusa nel soffio di una notte con molti esiti che rispondevano alle previsioni e ben poche, non sempre gradite sorprese: in mezzo, un mare di parole, giudizi, aspettative, fotografie, post, tweet e pettegolezzi, manifestazioni di un ego che cerca di farsi spazio tra i divi e le dive del Dolby Theatre, rivendicare il proprio diritto a partecipare, timbrare il proprio cartellino emotivo, estendere lo spettro di un godimento per qualche ora in più, per qualche giorno ancora. È stato l’anno della polemica sul razzismo dell’Academy, che la conduzione di Chris Rock si è impegnata a ricordare tra gustosi calembour e raggelanti frecciate; è stata l’edizione in cui per Revenant, un film che esibisce la finzione con il proposito di arrivare alla realtà (ancora dubbio il risultato, e sfacciatamente confuso con la poetica di un vero Maestro), Alejandro G. Iñárritu e Emmanuel Lubezki hanno vinto, rispettivamente, il secondo Oscar per la regia e il terzo per la fotografia consecutivi, sfidando, come sottolineato dagli arguti, tutti i grandi della Storia del Cinema che, per arrivare al primo Oscar, hanno dovuto attendere un premio alla carriera. Se la carriera di Ennio Morricone era già stata riconosciuta dall’Academy quasi dieci anni fa, il maestro italiano è riuscito nell’impresa di vincere un premio competitivo a quasi novant’anni, con quella che certo non è la sua più riuscita composizione, affettuosamente altero nel ringraziare in un quasi-romanesco che faceva tremare le gambe al traduttore. Le sue parole “Non c’è una musica importante senza un grande film che la ispiri”, pronunciate con un filo di esitazione, sono diventate su molte bacheche Facebook “Non c’è una musa importante senza un grande film che la ispiri”, omaggiando fuor da ogni logica semantica la moglie Maria, ugualmente dedicataria del premio. Se tutti volevano vedere Rocky sul palco, l’Oscar al miglior attore non protagonista è sfuggito alle mani nodose e umanissime di Sylvester Stallone, in favore di quelle gentili e un po’ aliene dell’outsider Mark Rylance. I premi alle migliori attrici, elargiti alle talentuose Brie Larson e Alicia Vikander, fanno discutere sulla sempre più giovane età delle vincitrici femminili: non si può non pensare a Charlotte Rampling, la più elegante della serata, che forse meritava la sua statuetta per la vibrante performance in 45 anni, nonostante l’infelice battuta di qualche settimana fa. Se i premi tecnico-artistici a Mad Max: Fury Road erano dovuti, avrebbe sorpreso piacevolmente anche la statuetta al Miglior Film per un’opera così folle da scardinare le regole dell’intrattenimento, ma l’Academy, si sa, spesso punta al rigore dei temi senza troppo soffermarsi sulla ricerca delle forme: da qui il premio al medio Il caso Spotlight, comunque non favorito, a cui è stato riconosciuto anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale (quello per la sceneggiatura non originale a La grande scommessa). Più che prevista la statuetta a Inside Out quale miglior film di animazione, importante l’Oscar straniero a Il figlio di Saul, liberatorio infine il riconoscimento a Leonardo DiCaprio, capace di un discorso memorabile (preparato, ma memorabile) che riporta alla realtà dell’ecologia l’astrazione di Hollywood e del suo star system: “I do not take tonight for granted”, non diamo per scontato neppure il mondo in cui viviamo. Il resto scorre facile, è puro e non sempre felice intrattenimento, speculazione in diretta o a posteriori per chi guarda e “internetta”: l’amore eterno tra DiCaprio e Kate Winslet, i corpi stretti in abiti firmati e pose fotografiche, le pettinature più improbabili, i più bizzarri stacchi di regia nella diretta tv, l’occhiolino del dolce Mark Ruffalo alle telecamere, la gag di Ryan Gosling e Russell Crowe, i robot di Star Wars sul palco e quel capolavoro di micromonologo con cui Louis C.K., prima di premiare il miglior cortometraggio documentario, riporta un intero pianeta alla realtà.