La casa degli orrori
La nebbiosa costa cilena, le onde dell’oceano, un levriero da corsa, quattro uomini e una donna, una casa anonima: cosa si cela dietro l’apparente quiete? Cosa non sappiamo sul conto di queste persone silenziose? Scopriremo presto che sono stati preti, non lo sono più per gli atti commessi durante il sacerdozio, e che la loro dimora è un luogo di (teorico) pentimento ed espiazione che tanto somiglia a una prigione. Ma non tutto ciò che di terribile è stato compiuto può essere rimosso e il passato tornerà inaspettatamente a bussare alla porta della tetra casa e a sconvolgerne i fragili equilibri.
Pablo Larraín (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell’arcobaleno) è un regista dallo stile potente e riconoscibile, che dosa gli stacchi di montaggio e ancora di più i movimenti di macchina, scegliendo inquadrature fisse che osservano con implacabile precisione ambienti e visi segnati dal tempo. Visi di uomini che hanno fatto scelte riprovevoli e criminali ma, privi di rimpianti, non sono disposti all’ammissione della colpa e alla conseguente sofferta espiazione. Ne Il club si parla di peccato e di violenza, di crimini e di pentimento, di abusi sessuali e abusi di potere. Si parla di religione, ma Dio non è mai stato così assente, così lontano e indifferente verso quei quattro suoi “pastori”, che alle “pecore” non hanno inflitto che il male. Larraín racconta la tragedia di uomini abietti, vigliacchi e meschini, i rami più secchi e marci di una Chiesa cattolica che li emargina senza condannarli, perché – si giustifica – l’unico giudizio supremo non è di questa terra. Il club è un film ostico, volutamente sgradevole, che non consente di provare alcuna pietà per i protagonisti, dal cappellano dell’esercito di Pinochet, che ha visto trucidare centinaia di persone e si è rifiutato di fare i nomi dei colpevoli ai processi, al prete pedofilo: sarebbe possibile il contrario? E il monologo di una vittima, un uomo disturbato che più volte racconta nel dettaglio degli abusi sessuali subiti da bambino, è per lo spettatore ai limiti della sopportazione: una cantilena piena di orrore, Larraín non sceglie mezze misure e forse esagera, specie nella seconda parte del film, con una storia che finisce per avvolgersi su se stessa fino a smarrire la dura e implacabile nitidezza dell’inizio. Il club perde la “giusta distanza”, come fosse trascinato nell’abisso delle anime nere dei suoi personaggi, e gli sviluppi narrativi, simbolici o meno, che conducono al finale lasciano una sensazione di maniera. Menzioni speciali al bravissimo Alfredo Castro, attore feticcio del regista, e alle sfumature espressive che regala a ogni primo piano, e alla fotografia di Sergio Armstrong tutta giocata su toni freddi, capace di amplificare il senso di gelo che pervade ogni inquadratura, ogni passaggio della storia, e inesorabile cala anche sullo spettatore.
Il club [El club, Cile 2015] REGIA Pablo Larraín.
CAST Alfredo Castro, Jaime Vadell, Roberto Farías, Marcelo Alonso.
SCENEGGIATURA Guillermo Calderón, Daniel Villalobos, Pablo Larraín. FOTOGRAFIA Sergio Armstrong. MUSICHE Carlos Cabezas.
Drammatico, durata 98 minuti.