Allenare l’occhio pigro
Il cinema di Gianfranco Rosi, fin dai primissimi titoli da documentarista indipendente, non si è mai risolto nella sola fruizione sul grande schermo: dall’India di Boatman alla Slab City di Below Sea Level, giungendo al Grande Raccordo Anulare del suo film Leone d’Oro, Rosi ha sempre processato il materiale filmico nel suo farsi e disfarsi, operando precise scelte di messinscena e, molto spesso, suggerendo la propria presenza fuori campo rispetto alla realtà che andava a documentare.
Così Fuocoammare, presentato con successo a Berlino e in odore di premio, non solo è un film di Rosi, ma un film su Rosi che fa un film. Niente per cui valga la pena storcere il naso, vista la coerenza più o meno apprezzata del regista: Rosi non è (mai stato) una mosca sul muro, neanche quando la macchina da presa, padroneggiata con maestria estetica, riesce a regalare momenti poeticamente inattesi. Sono noti i suoi esilii documentaristici, i mesi e gli anni trascorsi a contatto coi luoghi e le persone che si accingeva a raccontare, e se è vero che vivere insieme ai protagonisti dei propri film non è (mai stato) necessario sinonimo di verità, per Rosi questa urgenza è diventata col tempo una metodologia di rielaborazione dell’esistente, una scelta di dispositivo, in dialogo più o meno consapevole con due altri registi italiani contemporanei – Roberto Minervini e Pietro Marcello – e coi loro film a cavallo tra fiction e realtà. In Fuocoammare nulla o quasi nulla passa attraverso la lente di Rosi senza offrire, a un tempo, l’ambivalenza della verità e della ricostruzione personale: scene che sfiorano la maniera (bisogna dire, una finissima maniera giocata in solitaria) accompagnano il racconto dell’isola di Lampedusa attraverso il quotidiano dei suoi abitanti, fra i quali primeggia un bambino, Samuele, arguto e insieme purissimo, che della caccia con la fionda ha fatto la sua passione. Tra sortite in barca a remi con gli amici, viaggi con il padre e pranzi con la nonna, Samuele scopre presto che il suo occhio sinistro ha un difetto di strabismo: l’oculista parla di occhio pigro, colpa della fionda che chiede a una palpebra di stare sempre chiusa al momento della mira. Gli occhi di Samuele sono anche i nostri, abituati a conoscere Lampedusa attraverso le elusive immagini televisive, più propensi forse a curiosare tra il folklore e il primitivo che l’isola offrirebbe e lo stesso Rosi non si esime dall’evocare. La storia e la Storia si muovono tuttavia attraverso un’altra rotta, contraltare della terra e delle sue fiabesche meraviglie: la tragedia dei migranti e della loro clandestinità, il dolore e lo strazio non taciuto di volti e corpi, la speranza di chi ha viaggiato per sconfiggere la morte e, nel viaggio, ad essa si è sacrificato. È qui che Rosi gioca fino in fondo il proprio ruolo di filmmaker: scegliendo, anche nelle angustissime stive costellate di cadaveri, di fare la propria inquadratura. Giusto? Sbagliato? Verità o pornografia? Forse è meglio non cedere all’errore di elargire un giudizio, ma lasciar sedimentare la domanda dentro di sé, a lato del film. Cosmopolita assetato di esperienza, di tangibilità fisica del mondo, realmente empatico verso ciò che di atroce la vicenda degli sbarchi porta con sé, Rosi è il parente lontano e senza legami che in un dato momento, senza preoccuparsi troppo di fare bene o fare male, ti prende per un braccio e ti mostra anche quello che, secondo la teoria dell’immagine, non sarebbe consentito. Se è vero che certe scene di Fuocoammare varcano questo limite, è altrettanto vero che, fino ad ora, nessuno in Italia le aveva restituite con questa tensione. Dagli occhi titanici del suo autore, il film prosegue nella coscienza dello spettatore.
Fuocoammare [Id., Italia/Francia 2016] REGIA Gianfranco Rosi.
CAST Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo.
SOGGETTO Gianfranco Rosi, Carla Cattani. FOTOGRAFIA Gianfranco Rosi. MONTAGGIO Jacopo Quadri.
Documentario, durata 106 minuti.