Identità rubate
L’eversione come atto di ribellione sociale, etica ed estetica è una delle cifre stilistiche di Friedrich W. Murnau, cantore della luce e dell’ombra e pioniere di un cinema che vive di immagini-archetipo e pulsioni desiderative.
Alla base dell’opera del maestro tedesco, mitteleuropeo per nascita e per vocazione, vi è l’eterno conflitto del doppio dietro cui si cela un più articolato discorso sulle identità riconvertite. Ci sono due Murnau – l’uno è Robert Plumpe, l’altro è colui che rinnega il padre cambiando nome -, ci sono i suoi personaggi che si moltiplicano sdoppiandosi nelle loro ombre – i vampiri, duali e trini, nascosti in quasi tutte le sue opere -, simbolo di una poetica cinefila ad alto tasso epidemico e a propagazione sistemica. Il campo di forze maligno entro cui il regista orchestra la sua “sinfonia dell’orrore”, movimento in levare come il “canto di due esseri umani” (sottotitolo di Aurora, in cui agisce una “vampiressa” camuffata da contadina maliarda), pullula del disordine diabolico portato dall’agente del caos, il conte Orlok (Dracula), altro doppio riconvertito per esigenze burocratiche, poi ben “psicanalizzato” dalla teoria letteraria. Ma non è solo l’anarchia a regnare sovrana, soprattutto nella città vampirizzata dal doppelgänger, in quanto la ricomposizione strategica può avvenire anche per altre vie, ad esempio lungo la pavimentazione a scacchiera del castello su cui i due pedoni, Orlok e Harker, ingaggiano una metaforica partita a scacchi scandita da tre incontri decisivi. Ordine e caos scompongono e ricompongono l’immagine archetipica del mostro, smantellando le certezze dello spettatore che si perde lungo le direttrici, spaziali e spirituali, ridisegnate dal non-morto che aleggia ovunque. Geograficamente parlando, però, Murnau si ferma solo fino a Brema, tradendo con arguzia l’opera di Stoker a cui Browning e poi Coppola renderanno giustizia e verità rispettivamente nel 1931 e nel 1992. Ma, non dimentichiamolo, il succhiasangue degli anni Venti è il distruttore dell’ordine sociale, “cattivo selvaggio” e medium tra desolata campagna e città pre-moderna più che distinto flâneur. La sua dimora è l’incubo che si propaga come la peste in un gioco di chiaroscuri e di contrappunti sfumati fino a materializzarsi in simbolo virulento come la pianta carnivora, la iena o l’organismo embrionale osservato al microscopio. La potenza evocativa della messa in scena, coordinata in tutte le sue parti dal cineasta-architetto intensifica le allucinazioni fantasmatiche e riproduce la dinamicità dell’immagine attraverso una maniacale cura scenografica. Nosferatu il vampiro, capolavoro tornato in sala oggi grazie al progetto “Il Cinema Ritrovato”, è ipnosi progressiva più che regressiva, figura e metafora del desiderio (o di un’ossessione condivisa).
Nosferatu il vampiro [Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Germania 1922]