Quando leggerete questo articolo starò ancora volando verso l’aeroporto di Schonefeld, il punto di arrivo e di partenza obbligato per i cinefili italiani affezionati alla Berlinale. Essendo, quindi, prematuro parlare di film non ancora visti, la cosa migliore è cercare di capire che ruolo continua ad avere questo festival all’interno della galassia Europa.
In un’edizione, la 66a, priva di film da copertina (vedi il battage per l’anteprima di Nymphomaniac) e in un concorso che, a differenza dello scorso anno, punta in modo deciso su di una cinematografia giovane, emergente, il cuore resta sempre, immutabile, il cinema di qualità. Si guardi bene, sotto tale etichetta non rientrano i cosiddetti “film da festival”, opere impalpabili la cui esistenza è giustificata dal solo posizionamento della macchina da presa ma che comunque dimostrano grande fortuna, soprattutto in Italia: con cinema di qualità si intende, in primo luogo, un’idea di cinema.
E che questa idea venga sostenuta da Hollywood, con i fratelli Coen in concorso con Hail, Caesar! quando a Venezia65 Burn After Reading servì solo come apertura da passerella, dall’Italia, rappresentata dal solo Gianfranco Rosi con Fuocoammare, o dal più grande regista filippino vivente, Lav Diaz, che porta in terra tedesca A Lullaby for the Sorrowful Mystery, documentario di otto ore e cinque minuti (intervallati da un’ora di pausa pranzo) sull’eroe della rivoluzione Andres Bonifacio, poco importa. L’idea è la stessa, cambiano le forme. Lo scorso anno a trionfare furono un film girato interamente dentro un taxi con telecamere leggere da un regista tutt’ora prigioniero del regime, Taxi Teheran di Jafar Panahi, e un atto di accusa, visivamente emozionante, nei confronti dell’omertà della Chiesa, El club di Pablo Larraìn, entrambi usciti tardivamente e male in Italia. Due facce del cinema d’autore che a Berlino continua a sentirsi a casa e, soprattutto, a trovare investitori. Spesso ci dimentichiamo che la settima arte, a differenza di tutte le altre, nasce come industria: se non c’è un mercato per i film, i film spariscono oppure restano imprigionati fra le mura sicure di eventi accessibili solo a una minima parte del pubblico globale. Il mercato della Berlinale funziona, è attrattivo, vivace e si promuove benissimo all’esterno; quello di Venezia, per fare il solito esempio, è ghettizzato al secondo piano dell’Excelsior.
L’idea che muove la complessa macchina berlinese è che il cinema sia ancora vivo e che esista un mercato, là fuori, capace di capirne l’evoluzione e di puntare sulla sua pervasività nell’immaginario comune, a partire dai giovani registi, o meglio, dagli autori di domani.