Violenza, western, Pop e altre cose divertenti
Un gangster movie anni ’30 e un film sulla Hollywood del passato. Sono i due generi che Quentin Tarantino vorrebbe affrontare nella parte restante della sua carriera che, se le dichiarazioni fin qui fatte fossero veritiere, si concluderebbe con un X, cioè col decimo film.
Il regista di Knoxville ama i generi e adora mescolarli, ibridandoli con quel postmodernismo Pop che, da Pulp Fiction in poi, è diventato il suo marchio di fabbrica. Per questo quando parliamo di Django o di The Hateful Eight non possiamo avere in mente solo il western di Sergio Leone, ma siamo obbligati ad andare oltre la facciata, oltre l’ambientazione per realizzare che il primo è un’operazione di recupero della natura popolare (e dunque Pop) del genere rivista in chiave pulp mentre il secondo ha, per buona parte, un’atmosfera da giallo in cui le parti smaccatamente western diventano un inno allo splatter. Per questo occorre fare chiarezza. Buona parte del pubblico, per fortuna in misura sempre minore, continua a credere fermamente che al centro dei suoi film ci sia la violenza. Niente di più lontano dalla verità. Chiedetelo a Krishnan Guru-Murthy, giornalista di Channel 4 che nel 2013 rischiò di finire “con le chiappe per terra” dopo aver chiesto a Tarantino se non pensava che ci fosse un nesso tra il godere della violenza nei film e nella vita reale. Tarantino non si è mai preoccupato di valutare le implicazioni che un’immagine di finzione potesse avere nella quotidianità, poiché il suo peggior incubo non è crescere generazioni di “signori Wolf” bensì vedere gli spettatori uscire dalla proiezione di uno dei suoi film senza ridere. La tremenda uccisione di Hitler in Bastardi senza gloria, ad esempio, è un gioco al massacro di plastilina in cui il volto del Führer perde ogni traccia di umanità per trasformarsi in una maschera capace di accogliere decenni di rabbia: catarsi storica in salsa gore. Dopo l’ironia viene l’amore per il cinema. Cresciuto fra patrigni appassionati di musica e il Video Archives di Manhattan Beach, il giovane Quentin ha sviluppato udito e vista, divenendo il regista americano che più di tutti, dagli anni ’90 in poi, ha saputo giocare col passato in un’altalena costante fra plagio, appropriazione e criptomnesia. Il fatto che in questi mesi ci si stia interrogando sull’esistenza di un Tarantino Cinematic Universe rappresenta da un lato la consacrazione dell’esistenza di uno stile tarantiniano quale espressione di un certo gusto vintage per le immagini (vedi la scelta della pellicola 70mm per The Hateful Eight) e per la colona sonora (b-sides, 45 giri recuperati dalla sua collezione), dall’altro la possibilità di continuità e connessioni impensate, frutto dell’astuzia e di un talento innato per la sceneggiatura, che basterebbero alla Marvel per campare di rendita per altri vent’anni. Nell’era della convergenza, del mash up, Tarantino è lo zeitgeist, la linea estetica che collega moda e arte popolare, cinema classico e tendenze del contemporaneo, produzioni low budget e kolossal in Panavision. In definitiva, il custode fedele dell’eredità visiva del Novecento.