Si inizia presto: superate le 8, quando buona parte degli Italiani ha già bevuto il provvidenziale caffè, le torrenziali rassegne stampa e le notizie a rotazione cedono il passo ai primi dibattiti politici. La prima sfida è fra Agorà su Rai3 e Omnibus su La7: due ore in cui si rimasticano gli eventi della giornata precedente, essendo ancora presto per avere nel piatto delle novità.
Il sonno del mattino non di rado si manifesta in quello della ragione, che notoriamente genera mostri: è proprio questo, infatti, il momento in cui i freni inibitori non sono ancora tirati e i nostri onorevoli danno il peggio (anzi, il meglio, perché sono più sinceri). Sul palcoscenico si alternano le maschere della nuova Commedia dell’arte: la Renziana ottimista, il Leghista dantescamente «tristo», il giornalista polemico del Fatto Quotidiano e un generico “cattolico” (indifferente la sua collocazione parlamentare) assoldato per ricordarci che moriremo tutti democristiani. Sullo sfondo si agitano i personaggi secondari: il Grillino finalmente a suo agio nei salotti tv, Quello-di-sinistra-che-non-sta-con-Renzi e il Berlusconiano eterno che resiste come il soldato giapponese vent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Passate le 10, la Sacra Rappresentazione si trasferisce tutta su La7, grazie a Coffee Break e L’aria che tira: arrivano i primi fatti della giornata, che comunque sono identici a quelli del giorno prima, per altro uguali a quelli della settimana precedente, ma a dire il vero simili a quelli di un anno fa, comunque analoghi a quelli del decennio scorso, molti dei quali già ampiamente discussi negli anni Novanta, certi anche da prima. Ed ecco che nel 2016, tramontata l’età dell’oro in cui era sufficiente dire «Berlusconi» per creare un programma, eclissata l’effimera stagione dei tecnici in cui tutti sembravano improvvisamente laureati in economia, la tv italiana è tornata nel solco della tradizione, riuscendo ancora a creare dei talk in merito al Ponte sullo Stretto, l’articolo 18, le tangenti, l’alta velocità.
Valicati i telegiornali della fascia prandiale, è sempre La7 a raccontare la stessa politica di un’ora prima con Tagadà. All’ora della merenda tutto si ferma, ma il Palazzo non può certo tacere per colpa del palinsesto e dunque si trasferisce sui social, in una sfida a colpi di 140 caratteri, hasthag e like perfettamente in linea con la riduzione a slogan di tutti i contenuti. Si affilano così le armi per la sera, quando a Otto e mezzo Lilli Gruber riesce a impostare una discussione finalmente precisa e circostanziata, grazie anche al Punto di Paolo Pagliaro e a una scelta più oculata degli ospiti. Finché, dopo le 21, da Rai2 a La7 arrivano i cloni dei programmi che Michele Santoro faceva cinque, dieci, quindici, venti anni fa (mentre l’originale, intelligentemente, si è ritirato dall’agone in attesa di reinventarsi ancora una volta): Ballarò e DiMartedì indovinate quando, La Gabbia il mercoledì, Virus e Piazzapulita il giovedì. Come al solito va in scena il teatro latino di Plauto: l’intreccio è sempre lo stesso, i tipi umani anche, a cambiare sono unicamente i nomi dei personaggi, spesso identici a quelli della prima mattina, di metà mattina, della tarda mattinata e del primo pomeriggio. Fra un «posso finire?» e «non interrompermi» si arriva alla seconda o anche terza serata, con il canale di Urbano Cairo ancora protagonista grazie a Bersaglio mobile di Enrico Mentana e alle repliche notturne dei talk politici diurni. E poi è di nuovo mattina e la giostra ritorna a girare. Mentre i giovani espatriano a migliaia da un Paese che non riescono più a comprendere, incapace di affrontare i problemi ma abilissimo a sezionarli in tv. Aspettando Gasparri.