Bowie: Odissea nello spazio
C’è un film del dj Fritz von Runte che può essere considerato uno degli oggetti perfetti utilizzabili per riflettere su ciò che l’entità David Bowie ha significato – e probabilmente significherà per chissà quanto tempo ancora – per il mondo dello spettacolo: si intitola Bowie 2001 ed è un rimontaggio del 2001 di Stanley Kubrick con sovrapposti, come colonna sonora, buona parte dei pezzi più importanti del Duca Bianco, remixati con un fare tra dub, ambient techno e svisate electro-freak.
È un film che utilizza due miti assoluti trasfigurandoli, mostrandoci come sia possibile ricomporre ogni parte di essi senza che vada persa la loro carica leggendaria; sia per il film di Kubrick che per l’intera carriera di Bowie il discorso, infatti, non cambia: ogni parte vale il tutto, ogni parte è un frammento spettacolarizzante tanto quanto lo è l’intera opera/vita. Un viaggio straordinario nell’infinito e oltre. Sì, perché Bowie è stato proprio questo: un viaggio che da quando è iniziato non ha più avuto termine e che ha influenzato tutti coloro che ne hanno preso parte e anche coloro che, per un motivo o per un altro, a quel viaggio non hanno voluto partecipare. È quasi impossibile oggi non percepire Bowie in tante delle performance musicali e degli show che tutti i giorni ci circondano, ci assalgono, ci sopraffanno. È impossibile non sentire Bowie in gran parte della produzione pop mondiale, è impossibile non comprenderne l’influenza assoluta sui suoni e sul rock inglese, soprattutto su quello degli ultimi 25 anni. Perché Bowie è anche il trasformismo, la metamorfosi repentina, la capacità di non alterarsi cambiando continuamente. Proviamo ad ascoltare (e pensare) un disco come Low del 1977: una progressione inesorabile, chitarre affilate, luci abbaglianti, motorik germanici, schegge compulsive. E poi il flusso spirituale della seconda parte, come se mutasse tutto e non mutasse niente, il sonico che trascende ogni cosa, ogni vuoto e ogni pieno, e Bowie è come se non ci fosse più, è come se un mondo nuovo avesse avuto origine dalla stessa materia di cui sono fatti gli eroi. Tutto ciò ha a che fare con il cinema. Nel 1978 Bowie disse: “La mia intenzione è di incapsulare quello che vedo attorno a me, l’ambiente e il tempo, con la musica, così che se potessi guardare indietro al mio lavoro dal 1980 vedrei gli anni Settanta attraverso i miei occhi, come una serie di dipinti”. Che lo si voglia o no, quei dipinti sono sempre stati in movimento, i quadri di quella che è un’esposizione cinematografica della sua vita e della sua arte. Quando nel 2013 uscì The Next Day, fu un evento inaspettato. In pochi sapevano che Bowie fosse al lavoro da circa due anni su un nuovo disco; riuscì a tenere segreta la cosa compiendo un’operazione straordinaria, riuscendo a oscurarsi in tempi “internettiani” nei quali tutto deve apparire continuamente e deve essere comunicato alla velocità della luce. Ma un piccolo dettaglio non venne preso in considerazione: era lui la velocità della luce. E lo ha dimostrato ancora una volta con la messa in scena definitiva della sua morte nel suo ultimo lavoro Blackstar. Come scrisse Christian Zingales su Blow Up del marzo 2013: “Il fatto che Bowie sia stato più forte di Internet evoca qualcosa che è da rimandare a forze arcane e soprannaturali”. Evoca qualcosa di molto simile a un’infinita odissea nello spazio: il senso cinematografico di un’esistenza-spettacolo alla quale forse mai più avremo la possibilità di assistere.