“Sic transit gloria mundi”
Si è conclusa con il 2015 la sesta e ultima stagione di Downton Abbey, serie in costume anglo-americana scritta e ideata da Julian Fellowes. Degno epilogo dei 52 episodi l’atteso speciale di Natale, che ha magistralmente tirato le fila di una trama pazientemente tessuta e dei suoi intrecci elaborati. Dopo sei anni di reiterati successi, tra cui 12 Emmy Awards, 3 Golden Globes e 5 BAFTA, le vicende della famiglia Crawley, nobili proprietari della tenuta protagonista, hanno trovato il loro compimento in un finale denso e accurato, in linea con il disegno che soggiace all’intera serie.
Nello specifico, una parabola discendente: quella dell’aristocrazia post-edoardiana travolta dalla prima metà del Novecento. Nelle dinamiche relazionali in seno a Downton e nel succedersi degli eventi storici che la attraversano, si manifesta l’inesorabile trasformazione che il tempo opera nella società, da alcuni vista come una minaccia, per altri foriera di un diverso avvenire. L’opposizione tra tradizione e cambiamento, tra un conservatore amore per lo status quo e un entusiasta spirito progressista, è il vero motore della trama verticale, trasversale ai diversi personaggi e all’altra essenziale dicotomia: quella tra nobili e servitù, giocata sull’alternarsi tra i lussuosi piani alti e gli umili locali seminterrati. Se il doppio livello della tenuta struttura l’evolversi dei rapporti interni, la dialettica tra passato e modernità si esprime talvolta in modo più sottile, come nella differenza che passa tra una chioma ondulata e un taglio alla maschietta; altre volte irrompe con veemenza a incrinare il microcosmo patinato di Downton, destabilizzandone certezze e prospettive con la mano pesante di una realtà che non usa convenevoli. I personaggi stessi se ne fanno portavoce, rivelando sotto opposti schieramenti sfumature inedite e insospettabili, pronte a trapelare dietro a un’alzata di sopracciglio o a un’impercettibile serrarsi di labbra. Regina indiscussa dell’eloquenza mimica, l’impareggiabile Lady Violet: la Contessa madre interpretata da Maggie Smith, con il suo pungente e incantevole sarcasmo, è l’incarnazione dello humour raffinato che permea i dialoghi dell’intera serie. La sua eterna querelle con la cugina Isobel, amante dell’uguaglianza e dell’informalità, regala momenti di spassoso snobismo, decisamente meno drammatici di quelli che oppongono le due nipoti antagoniste, la sofisticata Mary e l’apparentemente remissiva Edith. L’equilibrio delicato tra dramma e ironia è forse il merito più grande di Downton Abbey, che ha saputo rielaborare i topoi della soap opera alla luce di un umorismo tipicamente british e di una scrittura brillante e consapevole. La stessa che lascia intuire, dietro alla frivolezza di broccati e polsini, di tagli alla moda e posate d’argento, il lento sfaldarsi del mondo nobiliare, della sua vanagloria di dettagli impeccabili e immutabili riti di ostentazione. Nessuna sorpresa, quindi, se il principale depositario del passato è proprio l’anziano maggiordomo: l’irreprensibile Mister Carson che ai Crawley e a Downton ha dedicato l’intera esistenza. Nella sua impeccabile pignoleria, nella servile compitezza, si racchiude il microcosmo del tempo che fu, costretto a cedere il passo al futuro ormai imminente. In questo clima di decadenza agrodolce, Downton Abbey trova il suo lieto fine. O, per dirla con Lady Violet, “the english version of an happy ending”.
Downton Abbey [id., Gran Bretagna/USA 2010 – 2015] IDEATORE Julian Fellowes.
CAST Maggie Smith, Hugh Bonneville, Michelle Dockery, Elizabeth McGovern, Brendan Coyle.
Period Drama, durata 48 minuti (episodio), stagioni 6.