Fantascienza o romance?
Cosa accadrebbe se un’invasione aliena portasse pace? E se gli invasori si rivelassero demoni? E se fossero i bambini i primi a seguirli, ad abbandonare le proprie famiglie, a privare l’umanità del suo futuro? Dopo decenni di tentativi cinematografici mai completati il celebre romanzo di Arthur C. Clarke diventa una miniserie tv in tre episodi.
Il risultato è altalenante: da una parte è affascinante constatare come le odierne tecnologie ad effetti speciali siano finalmente in grado di rendere “visibili” degnamente gli immaginifici mondi creati dalla letteratura fantascientifica, dall’altra si resta delusi dallo scoprire che “vedere” non è “provare”. Non basta ricostruire il diabolico Karellen per renderlo inquietante e sinistro. Per rendere giustizia all’opera di Clarke sarebbe servito un lavoro di regia più ragionato, fidandosi meno della qualità del soggetto e senza aggiungere quei troppi dettagli, utili solo alle facili commozioni, che snaturano il concetto e vanificano la tensione, il mordente. La prima puntata ha un’innegabile forza, tutta giocata sul contrasto dell’assurdo “invasione uguale pace” o “portatore della pace uguale demone”. Le successive due puntate appaiono frettolose, appena imbastite, sovraccariche: viene data un’importanza esagerata al rapporto tra Ricky Stormgren, primo uomo scelto per avere un contatto diretto con il Supervisore per la Terra, e la sua ex-moglie scomparsa; e al contempo viene dedicata non così tanta attenzione a Milo, l’astrofisico simbolo dell’Uomo-Ulisse, in perenne ricerca di conoscenza, che mai si arrende alla rinnegazione della natura umana imposta dagli invasori e al suo viaggio verso il pianeta dei Superni. La conseguente stravolgente scoperta del ruolo subalterno degli invasori, che non sono venuti sulla Terra per loro volontà, ma per ordine della Supermente, viene sbrigata in pochi minuti, gli stessi in cui Milo ritorna sulla Terra trovandola disabitata e prossima all’esplosione, lascia le sue ultime parole ad un registratore in collegamento coi superni e sceglie cosa lasciare della razza umana: il suono di un violino. L’unica cosa che si ottiene è una visibile fretta di tirare i fili e chiudere la serie. Allora ci si chiede: perché solo tre puntate? Perché voler scemare temi fecondissimi come quello di figure diaboliche più umane di quanto ci sia aspetta, per l’obbedienza, l’empatia, la delicatezza con cui svolgono il loro compito, quasi nolenti e remissivi in favore di amori trovati, perduti, dimenticati, cercati, divini, filiali, immaginari solo per allargare il target di pubblico? Questo processo di democratizzazione, o meglio di populismo, è lampante in Ricky Stormgren. Nel romanzo Ricky era Rikki, Segretario Generale delle Nazioni Unite, qui è un’affascinante contadino, mai a lavoro nei suoi floridi campi.
Childhood’s End [id., USA 2015] REGIA Nick Hurran.
CAST Mike Vogel, Osy Ikhile, Daisy Betts, Ashley Zukerman, Hayley Magnus.
SCENEGGIATURA Matthew Graham. FOTOGRAFIA Neville Kidd. MUSICHE Charlie Clouser.
Fantascienza, durata 70 minuti (episodio), stagione 1.