SPECIALE ORSON WELLES
Un amore così grande
C’era una volta il noir. Nato all’ombra della Grande Guerra, di terrore e oscurità aveva preso le sembianze, e come manto coprente si era disteso sulle pagine luminose dei romanzi incupendole; e come morsa opprimente si era stretto intorno alle immagini del grande schermo offuscandole.
C’era una volta il noir, cioè il pessimismo saggio e ironico dell’età moderna, gioco di equilibrismo tra disillusione e arrendevolezza. Noir come il nero che marca i volti e incide le vite dei personaggi, uomini perdenti e donne traditrici, solo apparentemente artefici del proprio destino. Noir come “stile” del racconto più che genere, arrendevole solo in parte ai tentativi di codificazione, sempre aperto alle seduzioni della sperimentazione. Noir che esce da sé inseguendo le ombre che esso stesso crea, e si fa cinema in grado di stupirci, spiazzarci, disorientarci. Oltre Il mistero del falco; oltre La fiamma del peccato; oltre Vertigine, esiste un noir capace di rileggere le antinomie dell’universo filmico attraverso il filtro sottile del virtuosismo e del citazionismo, attraverso la caratterizzazione iperbolica dei personaggi e l’azzardo geometrico. Un noir bigger than life, come solo poteva essere per il regista dall’ego grande quanto il suo genio, Orson Welles; un film costruito sull’enfatizzazione e la manipolazione simbolica, sulla trasfigurazione iconica del mito attoriale nel sovvertimento spiazzante della sintassi rappresentativa. Certo, non tutto è bello e buono ne La signora di Shanghai: la trama pecca, a volte, di confusione e farraginosità, e le motivazioni che spingono i personaggi ad agire non sempre hanno un coerente sviluppo interno. Ma se il protagonista O’Hara (Welles) fa per ben 87 minuti ciò che il narratore O’Hara dice che non dovrebbe fare, e Arthur Bannister (Everett Sloane) e George Grisby (Glenn Anders) – rispettivamente marito e complice della femme fatale – giocano a chi tra i due è più cattivo, inabissandosi magistralmente in un massacro psicologico che precede la pazzia, è di Elsa Bannister/Rita Hayworth lo sguardo che ci stringe il cuore, magnifico angelo caduto destinato a morire nel bagliore accecante, ma effimero e grottesco, di un’imperdonabile fragilità. Volti inondati di luce, corpi disseminati in uno spazio parcellizzato, abnormi ombre zoomorfe che si stagliano sullo sfondo come contrappunto dei profili di esseri umani ridotti a piatte silhouette: la filosofia esistenziale dell’homo homini lupus che impregna le dinamiche relazionali del miglior noir diventa, nella rivisitazione wellesiana, conflitto visivo, fusione di stili, ricerca estetica, esasperazione linguistica. E se, come nel miglior noir, gli “eroi” continueranno a perdere, i cattivi a morire e le donne a tradire, oltre il nero di stereotipate soluzioni narrative, resterà questo cinema, il cinema di Welles, universo dell’immaginario popolato da visioni disturbanti, illusioni prospettiche e biondissime dark ladies, effigi di un amore ineguagliabile per le potenzialità creative offerte dalla Settima Arte.
La signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, USA 1947] REGIA Orson Welles.
CAST Orson Welles, Rita Hayworth, Everett Sloane, Glenn Anders, Ted de Corsia.
SCENEGGIATURA Orson Welles (tratta dal romanzo If I die before I wake di Sherwood King). FOTOGRAFIA Charles Lawton jr. MUSICHE Heinz Roemheld.
Noir, durata 87 minuti.