SPECIALE ORSON WELLES
Un uomo, e la sua giustizia
Se c’è uno scritto di Kafka che Orson Welles forse avrebbe potuto interpretare figurativamente alla perfezione, questo sarebbe potuto essere America. Perché? Perché i suoi virtuosismi fotografici e le proporzioni alterate di figure umane in ambienti macroscopici ripresi grandagolarmente ben si sposerebbero con le vicende del giovane Karl Rossman – migrante praghese appena sbarcato nel continente americano – nelle quali indirettamente attraverso la scrittura di Kafka tutto appare così sproporzionato e gigantesco: è il punto di vista di chi osserva da lontano la grandezza di un nuovo mondo, che l’Europa sta imparando a conoscere, nella sua fama di Paese senza misura, territorialmente, architettonicamente e nell’ambizione culturale ed economica.
Welles trasporrà invece Il processo, ma i suoi virtuosismi fotografici trovano lo stesso scopo nella rappresentazione della disgraziata e surreale disavventura di Joseph K.. Una lenta ma decisa spersonalizzazione dell’individuo, già disperso esistenzialmente all’interno di una massa che lo priva d’identità, prima ancora che il tribunale inizi il suo misterioso iter. Girando tra la Jugoslavia, Parigi e Roma, Welles interpreta il vuoto d’identità immergendo il suo Joseph K. (ben più sfrontato e cosciente di quello kafkiano) in spazi enormi dai soffitti alti e corridoi infiniti esaltatati dalla profondità di campo, in un equilibrio che affastella il desolante vuoto di palazzoni isolati e il pieno contrastante di persone tutte uguali messe una di fianco all’altra a compiere lo stesso compito, prive di personalità e identità. Registicamente e fotograficamente, Il processo è immaginifico, accosta due poli che rimpiccioliscono metaforicamente la figura umana all’interno di uno spazio che toglie peso ad essa, ma allo stesso tempo i volti dei personaggi non ne risentono in proporzione, apparendo sempre incisi nell’immagine e in primo piano, in un rapporto simbiotico e letteralmente ossimorico tra pieno e vuoto, tra l’assenza nella presenza. Welles interpreta così la vicenda paradossale di Joseph K., messo sotto processo per un capo d’accusa che non conoscerà mai e che lo porterà a cercare di difendersi dalla misteriosa macchina della giustizia, senza essere in grado di sapere le cause. Ma più in generale Il processo di Welles interpreta cinematograficamente la paradossale narrativa e le indefinibili situazioni kafkiane in questo vuoto angosciante perché illusoriamente pieno. Con tutti i limiti del caso, la pellicola dà una specifica interpretazione, a differenza del testo originario che invece non ha confini significativi. Welles ha il più grande merito di non cercare a tutti i costi l’effetto onirico, ma di mettere in scena questo contraddittorio figurativo non solo tramite la spersonalizzazione dell’uomo-massa, ma anche attraverso l’impossibile interpretazione cinematografica dell’allegoria vuota kafkiana.
Il processo [Le proces, Francia/Germania/Jugoslavia/Italia 1962] REGIA Orson Welles.
CAST Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Orson Welles, Romy Schneider.
SCENEGGIATURA Orson Welles (tratta dal romanzo Il processo di Franz Kafka). FOTOGRAFIA Edmond Richmond. MUSICHE Jean Ledrut.
Drammatico, durata 120 minuti.