33° Torino Film Festival, 20 – 28 novembre 2015, Torino
Viaggio alla ricerca dell’altro
In concorso nella sezione “Italiana.Corti” del 33° Torino Film Festival, Comfort Zone è il racconto, a metà tra documentario e finzione, di un viaggio in una città sconosciuta, Dubai. Il film è basato sugli scatti autentici del giovane Hafid, che dopo aver rubato un telefono cellulare ha dimenticato di disattivare l’autosincronizzazione delle foto, permettendo alla legittima proprietaria di vedere sul proprio computer le immagini che Hafid raccoglieva.
Nella ricerca frustrata che separa i due personaggi, la macchina da presa si frappone come terzo personaggio e snodo di congiunzione, riflettendo sugli spazi reali e digitali e la loro connessione con l’essere umano. Mediacritica intervista la regista Perla Sardella, al suo esordio nel cortometraggio.
Il tuo cortometraggio si colloca in quel territorio di ricerca dove la realtà dialoga con la finzione. Qual è stato lo spunto di partenza al film e come hai deciso di elaborarlo per dare forma al tuo lavoro?
È stato difficilissimo dare una struttura al film. Sono partita da un fatto di attualità e, nel tentativo di dare un seguito alla storia, presto è entrata in gioco anche la finzione. Il viaggio alla ricerca di Hafid è la parte documentaria, di cui non potevo prevedere l’esito. Sono arrivata a Dubai per le riprese con un abbozzo di sceneggiatura, senza un’attrice e con l’idea di frequentare i luoghi delle foto di Hafid. Il resto è venuto, non da sé, ma dopo innumerevoli tentativi. Questa impreparazione di partenza ha esposto il film a un’iniziale debolezza, ma è servita per esplorare lo stato d’animo che si incontra di fronte al fallimento. In ogni caso, il tutto ha preso forma solo in fase di montaggio. È stato un lavoro di sintesi e riduzione continue per cercare di ricostruire l’atmosfera dei luoghi.
Nella vicenda sospesa tra Sophie e Hafid, cosa ha comportato muoverti con la camera in un luogo a te estraneo come Dubai?
La camera è smarrita perché non trova quel che cerca (o forse perché non sa esattamente cosa cercare): essere in un luogo sconosciuto è sicuramente servito a restituire un sentimento di smarrimento, ma l’aspetto più straniante è stato determinare una regola, un limite, per percorrere la città. Ho tracciato un itinerario a partire dalle foto di Hafid, e ho iniziato a frequentare i luoghi che egli stesso frequentava, quasi sperando di imbattermi in lui: fortunatamente non l’ho mai incontrato. Dubai è una città marziana ricavata dal deserto, è uno di quei luoghi in cui tutto funziona, destinato presto a diventare una realtà di spaventosa rassegnazione. È costruita come un aeroporto: tutto facile da raggiungere, tutto al coperto. Chi si sposta al suo interno segue precise indicazioni. Come su un nastro trasportatore, si ha sempre la sensazione di non spostarsi mai, o di percorrere sempre lo stesso spazio, rimanendo al sicuro.
Il corto ragiona anche su un altro tipo di spazio, quello virtuale, fatto di opportunità e insieme frustrazioni. La scelta di inserire didascalie in sovrimpressione al film, simili a status dei social o messaggi web, è connessa a questa riflessione?
Cosa c’è di più frustante e impersonale del non poter usare la propria voce per comunicare? Ho utilizzato la scrittura, piuttosto che una voice over, perché è la forma di espressione autoreferenziale per eccellenza. È una scelta dettata anche dalle circostanze: non ho mai incontrato Hafid e non gli ho mai parlato. Gli ho sempre e solo scritto, senza peraltro ricevere mai risposta. Nello scrivere quei messaggi avrei voluto avere un ascoltatore e magari anche un interlocutore, ma non è mai accaduto: nel film dunque il monologo non diventa mai dialogo. Se cambia, si trasforma piuttosto in diario, e si limita a creare un resoconto degli avvenimenti, tenendo sempre presente che per Hafid tutto questo non è mai successo.
Nell’approcciare il tuo lavoro, quali sono stati i tuoi principali riferimenti?
La ricerca è partita dallo studio delle modalità con cui il cinema documentario riesce a far trasparire l’autoreferenza dell’autore (autobiografia, lettera e diario): ho letto e visto tutto quello che sono riuscita a reperire a riguardo, e da lì ho spostato l’attenzione al cinema di finzione. Di sicuro fra le basi fondamentali ci sono stati Blow Up di Michelangelo Antonioni e The Address Book, il libro/esperimento artistico di Sophie Calle. Non posso non citare Sans Soleil di Chris Marker e Letter to Jane di Godard e Gorin. E poi molte altre suggestioni, anche insospettabili, come per Children of Men di Alfonso Cuaròn. Ma il riferimento davvero imprescindibile resta News from Home di Chantal Akerman.
Comfort Zone [Italia 2015] REGIA Perla Sardella.
CAST Sona Hovhannisyan.
SOGGETTO Perla Sardella. FOTOGRAFIA Perla Sardella. MUSICHE Carlo Maria Amadio.
Documentario, durata 13 minuti.