40 MOSTRUOSI ANNI CON FANTOZZI
L’italiano “impiegatizio”
Nel 1968 un giovane comico esordiente raccontava le disavventure di un suo ex collega impiegato presso un “burosaurico complesso industriale” alla trasmissione televisiva Quelli della domenica: il comico era Paolo Villaggio, e il suo ex collega, ovviamente, il Rag. Ugo Fantozzi.
La leggenda del travet più celebre d’Italia nasce così, prima che il settimanale L’Europeo commissionasse a Villaggio una serie di racconti basati sulle sue tragiche, mostruose e servili vicende, diventando subito un successo e poi raccolti nelle antologie Fantozzi (Rizzoli, 1971) e Il secondo tragico libro di Fantozzi (Rizzoli, 1974). Scritti in un inedito “italiano impiegatizio” (definizione dello stesso Villaggio), tuttora insuperato nella sua genialità, quei racconti portarono a compimento il ritratto impietoso di un mondo ingiusto e grottesco iniziato in tv, fatto di congiuntivi sbagliati, megadirettori galattici dalle poltrone di pelle umana e disgustosi sottoposti leccaculo, un mondo dove “il padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società, il mondo. E di questa struttura [Fantozzi] ha paura sempre e comunque perché sa che è una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai abbastanza. Questo per lo meno qui da noi” (dall’introduzione del 1971 di Villaggio al libro Fantozzi).
Da questi racconti, spesso dalla loro fusione, sono nati il film di cui in questi giorni celebriamo i quarant’anni, Fantozzi, e Il secondo tragico Fantozzi. Noi di Mediacritica abbiamo pensato di offrirvi qualche assaggio di questi racconti, che poi sono diventati alcune delle scene di culto più amate e citate dell’intera epopea fantozziana.
Tutti i brani qui sotto riportati sono tratti dal primo libro della serie, Fantozzi.
La sfida calcistica tra quarantenni
C’è sempre in ogni agglomerato umano l’ «organizzatore di sfide calcistiche». Mentre godono fama di organizzatori, questi elementi sono in realtà solo dei criminali pericolosi e la loro monomania porta periodicamente dei padri di famiglia sull’orlo della tomba.
Nella società in cui Fantozzi presta tragicamente servizio da sempre, l’«organizzatore» è Fracchia, ovviamente dell’ufficio sinistri. Erano due mesi che il cervello malato di quest’ultimo stava perfezionando una sciagurata idea: una sfida calcistica. Aveva cominciato con l’interpellare (o meglio violentare) i colleghi più timidi per metterli in squadra; aveva impiegato lunghe ore di ufficio per varare le due formazioni, aveva prenotato il campo, insomma aveva con la sua mente organizzativa allestito un quasi genocidio preterintenzionale. Per dare allo scontro un pizzico di interesse aveva lanciato un cartello di sfida: scapoli contro ammogliati.
Agli orologi timbratura c’era già da quindici giorni un cartello «spiritosissimo» con le formazioni, due disegni a pastello e l’avviso: «Scapoli contro ammogliati», ore 6,30 di domenica 24 novembre, al Campaccio. Molti commentarono che le 6,30 era un’ora un po’ tragica per un giorno festivo, ma si sa in Italia i campi da gioco sono pochini e la colpa non era certo dell’«organizzazione». […]
Alle 7, quando l’arbitro signor Mughini decise di dare egualmente inizio allo scontro, mancavano ancora quattordici giocatori. C’era, limitato al rettangolo di gioco, un temporale come dai tempi di Noè non si vedeva.
Parlare di scelta del campo in quel pantano terrificante sarebbe stato ridicolo: e si cominciò. Da una parte erano schierati tre ammogliati, dall’altra cinque scapoli. […] Viene incaricato del calcio d’inizio simbolico il direttore magistrale superiore. Questi parte con breve rincorsa e colpisce una grossa pietra scambiandola per la palla e va a pozzanghera ululando tra lo scoramento generale. Poi il fischio d’inizio. Una frazione di secondo e c’è subito uno scontro a 8, si sente un rumore tremendo di tibie e di ossaglia, qualche lamento, degli scricchiolii, e la partita viene subito interrotta. Arrivano intanto alla spicciolata i giocatori ritardatari. […] Dopo la prima corsetta i giocatori sono tutti a pezzi: annebbiamenti alla vista, miraggi, palpitazioni e manie di persecuzione. Fracchia, dopo dodici minuti di gara vide addirittura san Crisostomo che gli sorrideva da sopra la traversa avversaria.
Tra gli ammogliati si batteva come un leone, senza toccar palla, un certo Filini. Quarantasei anni, 99 cm. di statura, esordiente, completamente calvo. La palla, pesantissima perché intrisa d’acqua, viene respinta da un terzino avversario. Si alza a campanile a 190 m. e ripiomba. Sorprende Filini in una zona sguarnita del campo. Lo sventurato tenta la respinta di testa. Si pianta come un chiodo nel fango fino alla cintura e poi ha immediatamente delle strane visioni: fiori, la casa dove era sfollato durante la guerra, il fratello in un prato verde. Si risveglia all’Ospedale Maggiore. […]
Al 36′, calcio di rigore. Si incarica del tiro Fracchia, emozionatissimo. Prende la rincorsa da dietro le colline e viene giù al galoppo. Nel campo si era fatto un grande silenzio. Fracchia entrò dalla porta del palio. Giunto all’altezza del dischetto gli partì la scarpa dopo aver mancato decisamente il pallone. La scarpa centrò in pieno il portiere sgranandogli tutti i denti. Il portiere (che era sceso in campo, su consiglio di alcuni politicanti, in completo grigio, chiavi incrociate agli occhielli, berretto gallonato e guanti bianchi) rimase un attimo ondeggiante e poi andò a cemento. L’arbitro che vide la scarpa rotolare in porta, fischiò la prima rete. IL punteggio, che fino a questo momento era rimasto bloccato sullo zero a zero, degenerò decisamente: 5 a 8, 11 a 20 e poi 38 a 24. Erravano per il campo dei calciatori miopi, ormai quasi ciechi, avendo perso gli occhiali nelle mischie, che colpivano sempre i compagni di squadra in nuca, credendo di respingere la palla. Scoppiarono quindi delle risse feroci. Bulbem, un mostro dell’ufficio sinistri, staccò netta un’orecchia, con un morso, a Fantozzi. Il capo del personale se la mise in tasca e la portò a casa per farla trapiantare su un suo cugino che aveva un udito irregolare. La partita fu sospesa per oscurità al calar della notte.
La volta che Fantozzi visitò le grotte di Postumia
Fantozzi si è iscritto ad una gita aziendale organizzata dalla sua società.
Questa volta il programma approfittando di un «ponte» festivo comprendeva una gita a Trieste per assistere al varo di una grossa petroliera di una società consorella e coll’occasione una visita alle notissime grotte di Postumia ora in territorio jugoslavo. […] Arrivarono in gruppo ai Cantieri Navali.
U n colpo d’occhio meraviglioso! C’era una tribunetta imbandierata nereggiante di autorità: ministro Marina mercantile, sottosegretario Marina mercantile, sindaco con fascia tricolore, notabili vari tutti in nero, porporati e generali.
Madrina del varo la contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare. Fantozzi non fece caso al fatto che in genere madrine dei vari son sempre contesse o comunque mogli di potenti o amanti di cardinali e che a lui non era mai capitato di leggere notizie del tipo: «Ieri è stata varata la Seba Cameli, madrina del varo la moglie del tipografo Frulli o la madre del bracciante lucano Senzapane».
La Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare stringeva nella destra una poderosa bottiglia di champagne «Magnum» di 2 litri legata con un nastro tricolore allo scafo. Doveva prendere una lunga rincorsa di 32 mt. e infrangere la bottiglia sulla murata. Parte da 32 mt. la Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare e si rivolge al capo-varo: «Capo-varooo…?? Posso?». «Vadiii, contessa!» rispose il capo-varo.
Partì con violenza diabolica da 32 mt. la contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare e centrò netta la nuca del ministro della Marina mercantile. Il ministro venne poi furtivamente varato a parte! Visto questo incidente si pensò di cambiare la mecanatio del varo. Portarono alla Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare un prezioso cuscinetto di raso rosso sul quale era adagiata una accetta d’argento.
La Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare doveva prendere l’accetta e tagliare un cavetto metallico che spezzandosi metteva in moto un marchingegno che a sua volta varava la nave.
Parte da 32 mt. la Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare: «Capo-varooo??» «Vadii, contessa!».
Troncò netto il mignolo del sottosegretario della Marina mercantile. Cazziata paurosa del parlamentare che viene interpretata dalla nave come segnale-sirena varo. E la nave si varò da sola. Entrò maestosamente e lentamente in mare, rimase così fra gli applausi per trenta secondi, poi di colpo si capovolse. Si udì allora distintamente ciò che il sottosegretario stava dicendo alla contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare. […]
Fantozzi e il campeggio
Fantozzi per sfuggire alle tagliole dell’organizzazione ha pensato di vivere una libera vacanza in campeggio a contatto con la natura, lontano da alberghi e itinerari consigliati. Si è comperato allora una tenda.
Mai una decisione fu più tragica.
Dopo una settimana di «allenamento» nel giardino del collega Fracchia i due, sentendosi ormai maturi per un campeggio regolare, partirono. Nel sedile posteriore dell’utilitaria di Fantozzi la tenda era un pacchettino piccolo e meraviglioso. I due la guardavano con orgoglio e quando pensavano ai poveretti che sarebbero caduti nella trappola di un «giro organizzato alberghi compresi» ridevano forte, nonostante la pioggia implacabile delle loro due «nuvole da impiegati» che batteva sui vetri della macchina. Incrociarono molte corriere di impiegati inseguite da temporali isolati e anche potenti cilindrate di megapresidenti che volavano in riquadri di sole. Fantozzi per un sorpasso in curva fu frustato in un autogrill da due agenti della stradale, di fronte a una folla spaventata. A causa di questo umiliante contrattempo, i due arrivarono a un camping pieno di turisti tedeschi a notte fonda.
Aprirono il pacchettino e cominciarono fischiettando i lavori. Furono severamente ammoniti dal guardiano che fece loro presente che il sonno degli altri campeggiatori andava rispettato. Si sentiva solo il picchiettio del martello di Fracchia che piantava i pioli reggitenda. Era un rumore metallico e ritmico che nei campeggi era tollerato. Tinn… tinn… faceva il martello e i due si sentivano inseriti nel novero dei campeggiatori professionisti.
Tup! fece il martello centrando il pollice di Fantozzi che reggeva i pioli mentre Fracchia maneggiava abilmente il martello. Fantozzi si ricordò che non erano ammessi rumori e si avventò per un chilometro nella boscaglia e solo quando fu fuori portata di voce squarciò la notte con un ululato preistorico. Tornò dopo mezz’ora con un pollice da «marina» e sussurrò a Fracchia: «Stia attento, porca miseria, mi ha smontato la mano». E nel buio gli offrì una sigaretta per fargli intendere che non gli serbava rancore.
«Tenga» bisbigliò.
Fracchia pensò che gli passasse un altro piolo da piantare e lo centrò con un’altra tremenda martellata sulle nocche. Fantozzi si avventò nuovamente nella boscaglia. Tornò all’alba e alzarono la tenda. […] Alle otto del mattino la tenda lentamente si afflosciò. I nostri si dibatterono per 20 minuti sotto gli occhi esterrefatti degli abilissimi campeggiatori tedeschi, come Laocoonte i figli e i serpenti nel groviglio della tenda, poi cominciarono a gridare «Aiuto… aiutooo…»; i tedeschi li salvarono da sicura morte per asfissìa.
La sera dopo la tenda si afflosciò alle due di notte e cominciarono subito a gridare. Nel montare la tenda Fracchia aveva anche centrato Fantozzi nella nuca scambiandolo per un piolo.
La terza sera dormirono in un albergo con un gruppo che faceva un itinerario consigliato. Senza consultarsi decisero allora di tornare. La tenda occupava ora tutto l’abitacolo dell’utilitaria e Fracchia fece il viaggio di ritorno legato al tetto con le valigie. Fantozzi era distrutto e guidava a fatica. In autostrada ebbe degli incubi orrendi perché la tenda continuava a crescere fino a soffocarlo e ogni tanto urlava «Aiuto!». Quando fu immerso nella tenda cominciò a guidare col radar: vale a dire Fracchia dal tetto gli indicava le curve con dei gridolini sinistri. Sotto casa di Fracchia fecero un frontale contro un palo della luce. Fantozzi uscì dai rottami col volante in mano, era l’unica parte dell’utilitaria, che aveva appena finito di pagare, sopravvissuta. Si avvicinò al palo e gli domandò tragicamente: «Scusi, è assicurato lei?».
Fantozzi si dà al tennis
Solo ora, all’inizio di un tragico declino fisico, Fantozzi sta realizzando di non essere mai stato uno sportivo. […]
Bisognava correre assolutamente ai ripari, e Fracchia lo travolse in una avventura umiliante: cominciare a giocare a tennis. «È l’unico sport che si può praticare alla nostra età» gli disse Fracchia. «È divertente e poco dispendioso… Fisserò il campo per domenica mattina.» […]
Il campo purtroppo era stato fissato per l’unica ora libera: dalle 6 alle 7 del mattino. Tutte le altre ore erano già impegnate da tempo e più ci si avvicinava alle ore calde e comode intorno a mezzogiorno più aumentava il rango e il grado dei direttori generali e direttori naturali, ereditieri, cardinali o figli di tutti questi potenti.
In autunno, a quell’ora del mattino, in Italia c’è un clima siberiano (è una realtà che neppure la propaganda fascista era riuscita ad abbattere con lo slogan: «Italia il giardino d’Europa»). Quando Fantozzi uscì si trovò immerso in un nebbione terrificante, come da anni non vedeva. Avanzò a braccia tese, barcollando, alla ricerca della sua macchina. I numeri di targa non se li ricordava ormai più (e pensare che un tempo si ricordava i numeri anche di tutte le auto dei suoi amici e quelli del telefono!), ma la macchina la riconobbe dall’odore perché la sera prima aveva portato del gorgonzola a casa.
Un fantasma tra la nebbia lo aspettava ai cancelli del «Park tennis»: era Fracchia. Entrare nello spogliatoio era come entrare nel frigo di una grande macelleria. A causa della temperatura polare, tre giocatori entrati la sera prima erano rimasti
(uno in piedi nell’ atto di infilarsi un golf, un altro seduto su di un panchetto e il terzo mentre faceva le mosse per uscire) in istato di ibernazione. Avevano le facce sorridenti e immobili, ma anche molto assenti.
Fantozzi e Fracchia li salutarono molto imbarazzati, senza ottenere risposta. Si cambiarono per la partita. Per Fantozzi doveva essere la prima ed ultima partita della sua vita.
Uscirono nella nebbia. Fracchia aveva visiera parasole, un gonnellino pantalone bianco, di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpe da passeggio di cuoio grasso con calze nere e giarrettiere e una monumentale racchettona da tennis modello 1913. Era questa un cimelio di famiglia che, per la sonorità delle sue corde, veniva scambiata da alcuni parenti per una chitarra e usata come tale.
Fantozzi era in canottiera, mutande aperte sul davanti e chiuse pietosamente con uno spillo da balia, racchetta da ping-pong in tela gommata e sughero, grande visiera verde con la scritta: «Casinò municipale di St. Vincent », piedi nudi.
In campo, per la nebbia, i due giocatori non si vedevano. Alla prima tremenda battuta Fracchia infranse con una «cannonata» la grande vetrata del salone di soggiorno del «Park tennis». Si sentì solo lo schianto lontano nella nebbia.
Alla seconda battuta, effettuata con estrema violenza, Fracchia andò a terra con un gemito dopo aver mancato clamorosamente la palla. Fantozzi che sentiva rumori e lamenti, si avvicinò sospettosamente, avanzando nel nebbione sempre a braccia tese in avanti. E qui Fracchia «sparò» la terza terrificante cannonata centrando Fantozzi nel bulbo oculare destro mentre il racchettone-chitarra si perdeva lontano. Fantozzi si accasciò senza un grido.
Fracchia stabilì che aveva vinto la partita e alla moda dei «prof» australiani della troupe di Kramer corse verso l’avversario cercando di saltare la rete a piè pari. Volò a faccia in giù, incraniandosi vicino alla racchetta da ping-pong del suo rivale. Rimasero semisvenuti fino a quando, diradatasi la nebbia, furono portati negli spogliatoi da alcuni inservienti.
Cercarono di fare la doccia, ma fu un’impresa disperata. Le docce sono congegni infernali che non si possono regolare. Prima scese dai tubi una granita di acqua ghiacciata e quando tentarono di regolarla furono centrati da un getto di acqua fumante a 300 gradi. Allora ulularono saltando fuori portata con ustioni guaribili in 2 o 3 giorni. Lasciarono la posizione disperati.
Il giorno dopo arrivò a Fantozzi il conto della vetrata. La signora Pina, pietosamente, non fece commenti.
Ma per tre notti sognò di ricevere la coppa Davis dalle mani di Alessandra di Kent in una splendida giornata di sole.