10a Festa del Cinema di Roma, 16-24 ottobre 2015, Roma
In fuga da un ruolo
Prima di ogni proiezione in programma alla Festa del Cinema di Roma, edizione 2015, è stato mostrato uno spezzone, Visconti, Luhrmann, Peter Sellers, Chaplin o altri. Ciascuno col chiaro messaggio, espresso a pieno schermo, che “il cinema è sempre una festa”. Possiamo attenerci a quest’indicazione? Non è semplicistica o restrittiva? Il Cinema è sempre una festa? Il Cinema di questi nove giorni lo è stato?
Molta attenzione è stata data ai numeri: 37 film nella selezione ufficiale, 10 incontri, 3 retrospettive, 11 omaggi, 3 microsezioni (Work in Progress, Hidden City, Riflessi) e la selezione autonoma di Alice nella città/Panorama con 36 film, in totale 24 paesi rappresentati. Tutte quantità in aumento rispetto agli anni precedenti. Nelle interviste agli organizzatori si è fatto riferimento a numero di visitatori, di biglietti venduti, di accrediti, addirittura al numero di recensioni positive e per questo, sembra, ci sia da festeggiare. Nella selezione web-movie, film di fantascienza, serie tv, classici, film indipendenti, grandi produzioni 3D, un musical orientale, tutte le facce del cinema hanno avuto spazio.
Quindi Festa è generi disparati, salti pindarici? Ammettiamo giocosamente di sì e guardiamo ai film. La qualità media è stata sufficiente a fare di questa edizione una buona vetrina, ma cosa emerge? Due o tre titoli i cui contenuti sono tutt’altro che festosi: Land of Mine, The Whispering Star, Eva no duerme. Più in generale c’è stata una strana dominante tematica e formale, che sembrava comprendere la quasi totalità delle opere presentate: la volontà di sfuggire ad un ruolo, di cambiare volto e sovvertire i pregiudizi nei propri confronti. Le donne coraggiose di Angry Indian Goddesses cercano vite normali, la protagonista di Amama vuole sfuggire alla vita contadina, la Corea del Nord di The Propaganda Game vorrebbe apparire diversa all’estero, come anche i registi palestinesi e israeliani provano a fare con i loro paesi in Sport, in Alaska Fausto vorrebbe smettere di accontentarsi e il pregiudicato Enzo in Lo chiamavano Jeeg Robot sfugge al ruolo di subordinato sociale, i più raffinati Sion Sono e David Verbeek sfuggono con le loro opere all’uniformità del tempo e della linea narrativa ed i servizi d’epoca montati da Gianni Amelio in Registro di classe mostrano una scuola retoricamente sfuggita alla realtà, Rubini gestisce quattro personaggi in fuga dalle loro maschere in Dobbiamo parlare, il tempo che sfugge in These Daughters of Mine e i ruoli familiari in discussione in Au plus près du soleil, il volto nuovo della vita per Tracy in Mistress America e la verità sempre sfuggente di Truth. La quantità, che sembrava ingombrante, ha svelato una trama fitta, significativa. È come se la Festa avesse impresso le proprie aspirazioni e difficoltà, i propri turbamenti, nella selezione, anche lei è perennemente in cerca d’identità, di scopo, di liberazione dal ruolo imposto come un dovere o un debito nei confronti della “città del cinema italiano”. Scopriamo una festa dal volto triste, autoriflessiva. Tornare al variegato e sorridente volto disimpegnato non è ancora il passo giusto, toccherebbe ragionare e non raccogliere solo numeri. “Provare provare provare, poi ci si riesce”.