Il cinema cannibalico (non solo) italiano
L’uscita di The Green Inferno di Eli Roth ci consente di affrontare uno dei filoni più celebri e mai dimenticati dell’horror italiano: il cosiddetto cannibal movie. Il solo fatto che uno dei registi più importanti dell’horror contemporaneo abbia voluto rendergli omaggio, dimostra l’impatto che ha avuto e continua ad avere a livello mondiale.
Molti cinefili e appassionati inorridiscono di fronte ai titoli cannibalici dimenticando, tuttavia, che sono stati film come questi ad essere maggiormente esportati all’estero poiché “commerciabili” e in grado di creare una solida base per il cinema più artisticamente elevato. Nessuno dei cannibal movie ha mai avuto grandi pretese, ponendosi quali prodotti di puro intrattenimento per gli amanti del cinema estremo, sensazionalistico e voyeuristico, e in grado di generare repulsione nei confronti di immagini che vanno ben oltre il limite del guardabile. Massacrati all’epoca della loro uscita da parte della critica, ancora oggi si fatica ad accettarli tant’è che Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato spacca il pubblico cinefilo tra coloro che lo ritengono un autentico capolavoro e chi, invece, lo definisce puro trash senza capirne il significato profondo. Perché accanto alle immagini estreme di macellazione e smembramento dei corpi, di evirazioni, di antropofagia e di autentiche uccisioni di animali – in un’epoca comunque segnata da numerose stragi e disordini sociali –, i film cannibalici restano un interessante esempio di feroce critica all’invadente comportamento della società occidentale nei confronti delle popolazioni primitive e, in alcuni casi, della pericolosa manipolazione massmediatica. Questi film “incriminati” che hanno scioccato il pubblico internazionale per la loro estrema violenza, non possono che essere rimasti nella memoria degli spettatori: Il paese del sesso selvaggio (1972), Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981) di Umberto Lenzi; Ultimo mondo cannibale (1977), il già citato Cannibal Holocaust (1980) e, seppur in minima parte, Inferno in diretta (1985) di Ruggero Deodato; Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977) di Joe D’Amato; La montagna del Dio cannibale (1978) di Sergio Martino – senza contare le contaminazioni con altri filoni orrorifici come i film di zombi. Attraverso un miscuglio di avventura ed esotismo, orrore e violenza, documentario – vista la filiazione diretta dai mondo movie –, questi titoli hanno il pregio di aver, più o meno consapevolmente, posto al centro dell’attenzione la continua mancanza di rispetto da parte dell’uomo “civilizzato” nei confronti delle uniche popolazioni in grado di vivere in armonia con la natura. E il cannibalismo, da pratica rituale, diventa l’unica arma di difesa dagli usurpatori. Naturalmente, l’antropofagia trascende i confini del cannibal movie per divenire una singolare pratica di sopravvivenza in situazioni disagiate, com’è nei casi di Fuochi nella pianura (1959) di Ichikawa Kon, Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, Le colline hanno gli occhi (1977) di Wes Craven, Antropophagus (1980) di Joe D’Amato. E non va dimenticata la serie di film incentrata sul dr. Hannibal Lecter, il cannibale per eccellenza. Se da un lato il cannibalismo è una pratica disgustosa e primitiva, dall’altro è affascinante e viene presa di mira anche da commedie grottesche quali Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) di Peter Greenaway e Delicatessen (1990) di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro. In fin dei conti, almeno in talune situazioni di estrema difficoltà di sopravvivenza, l’uomo non ne può fare a meno: del resto “è meglio riposare in pace nel caldo corpo di un amico piuttosto che nella fredda terra”.