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In questo numero

Il cielo può attendere (1943)

martedì 8 Settembre, 2015 | di Edoardo Peretti
Il cielo può attendere (1943)
Festival
2
Voto autore:

72a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, 2-12 settembre 2015, Lido di Venezia

VENEZIA CLASSICI
Addio
Ne Il cielo può attendere la consueta elegante e caustica frivolezza di facciata non impedisce di cogliere l’atmosfera funerea che costituisce la sostanza più profonda del film, tra i più conosciuti e celebrati del maestro della commedia Ernst Lubitsch, oltre ad essere il primo da lui girato in technicolor.

E sono proprio i colori accesissimi e quasi espressionisti del technicolor a conferire al film, in un certo senso, un ulteriore senso di malinconia, soprattutto se consideriamo l’anno in cui il film è stato realizzato e il relativo contesto storico: siamo infatti nel 1943, anno non propriamente tranquillo nel mondo. Le immagini e i resoconti della Seconda Guerra Mondiale si facevano sempre più pressanti ed evidenti nella loro tragicità anche oltreoceano; perciò,mediacritica_il_cielo_puo_attendere_1 gli eleganti aristocratici e altoborghesi un po’ fuori dal mondo e le loro raffinate schermaglie amorose apparivano, inevitabilmente, sempre più lontani dal tempo e dalla storia, e la commedia sofisticata iniziava a non essere più in grado di offrire un mezzo veramente adeguato per sognare immedesimandosi nei suoi mondi paralleli dorati (all’apparenza, perché almeno negli esempi migliori, non è mai mancata una visione più complessa e critica presente tra le righe).
Il cielo può attendere è quindi un po’ il canto del cigno, la summa di questo sottogenere e della frivolezza sophisticated d’alto rango: e quindi ecco i colori irreali ed esagerati a suggellare un’irrealtà sempre più evidente; ecco il sotterraneo senso funebre che costituisce questo elegante e spassoso racconto di morte; ecco la malinconia sommessa che nasce dalle fughe, le assenze, le mancanze e le scomparse che riempiono il racconto, avvenute perlopiù fuoricampo (merita la citazione, per esempio, il sottile ricordo del nonno, sommo esempio del Lubitsch’s Touch). Non è neanche un caso, sempre seguendo questa chiave di lettura, che Il cielo può attendere sia anche una delle commedie – perlomeno come impianto, più immediato – più tradizionali del regista tedesco, il quale rinuncia anche ad una delle tematiche preferite: la centralità della finzione e la necessità della recita (punto focale di film come Mancia competente, Scrivimi fermo posta e Vogliamo vivere!). Anche questa fedeltà alle “basi” del filone può essere letta come omaggio ad un’idea di commedia sul viale del tramonto, per la quale sarà sempre più necessaria una maggiore – o meglio: più diretta ed evidente – vicinanza alla realtà. È perciò semplicistico definire il film come puro esempio di frivolezza sofisticata, anche perché non manca la causticità dell’ironia, in particolare contro i nuovi ricchi. Il cielo può attendere è un testamento, un’ultima occasione di giocare con le armi tipiche del filone, con la consapevolezza che il gioco sta finendo. Si tornerà altre centinaia di volte sul campo da gioco, ma le regole non saranno più fino in fondo le stesse.

Il cielo può attendere [Heaven Can Wait, USA 1943] REGIA Ernst Lubitsch.
CAST Don Ameche, Gene Tierney, Charles Coburn, Louis Calhern.
SCENEGGIATURA Samson Raphaelson. FOTOGRAFIA Edward Cronjaier. MUSICHE Alfred Newman.
Commedia, durata 113 minuti.

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