Daniele Ciprì è uno splendido 53enne nato e cresciuto a Palermo come fotografo e divenuto autore (È stato il figlio, La buca) dopo le incredibili sperimentazioni degli anni ’90 targate Cinico Tv e firmate assieme a Franco Maresco. Da un po’ di anni riesce a malapena a passare una settimana consecutiva nella sua casa di Siracusa, sempre rimbalzato a giro per il mondo in veste di regista o di direttore della fotografia per altri amici autori come Marco Bellocchio, col quale ha appena finito di girare Sangue del tuo sangue.
In un’intervista di qualche mese fa dicevi che avresti creato una fotografia cupa, noir, per il nuovo film di Bellocchio. Oggi, a riprese in corso, questa idea è stata rispettata?
Assolutamente. Marco ha una visionarietà del cinema che è il più noir possibile, racconta qualsiasi storia brancolando nel buio, guardando nelle ombre, facendo molta attenzione all’immagine e alle prospettive cinematografiche: da questo punto di vista è uno degli ultimi rimasti. Tutto parte dai suoi disegni, in ciascuno dei quali io vedo circa sei inquadrature e sento il desiderio di avere una luce particolare. Il film di Marco è una storia abbastanza drammatica e questo merita una certo tipo di fotografia cosi com’è avvenuto durante le riprese a Bobbio che si alternano fra il ‘600 e i giorni nostri: abbiamo mantenuto questa cupezza molto noir anche se la storia non c’entra nulla con quel genere. Aspetto a cantar vittoria ma, fino ad ora, sono sia io che Marco siamo abbastanza contenti.
Quando lavori ad un film, sia come regista che come direttore della fotografia, operi in maniera inconscia oppure, come fanno molti (ad esempio Tarantino) fai una full immersion di film che pensi possano ispirarti?
Mi capita spesso di andare a rivedere delle cose ma solo per avere un input, non per imitarle. Quando giro e sono sul set mi capita di citare il cinema e dico, per esempio, “guarda questa sequenza mi ricorda L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel” oppure “questa te la faccio alla Orson Welles” però sempre ridendo. Questa cosa, che condivido con registi come Lucio Fulci, non voglio assolutamente perderla e spero di non fare mai il citazionista. Non ho fatto scuole di cinema, per questo mi do degli input attraverso quello che ho visto, che è sempre un riferimento anche se è stato fatto tecnicamente meglio o peggio. Mentre sono sul set ricordo sempre qualche film e spero che questo si avverta in tutto quello che faccio.
Non avendo fatto scuole di cinema, come hai mosso i primi passi sul set?
Sono nato in una famiglia di immagini: mio padre riparava le macchine fotografiche e aveva la passione per il cinema ma, principalmente, faceva servizi per i matrimoni. In una città come Palermo che non aveva nulla da offrire, lavoravo con lui e, parallelamente, entrai nella cooperativa di Tornatore. Poi mi sono chiesto a cosa mi servisse tutto questo e son diventato un autore. Adesso insegno quello che so, faccio tre scuole anche se ora non posso farne più perché, ringraziando il cielo, lavoro molto e continuo a fare cortometraggi per i giovani, due sono a Cannes: Sotto Terra di Mohamed Hossameldin e Sonderkommando di Nicola Ragone che ha vinto il Nastro d’argento 2015 come Miglior Corto.
Dividendo il tuo lavoro fra la regia dei tuoi film e la fotografia per altri autori, cos’è che ti dà più soddisfazione?
È una domanda che mi fanno sempre! Tutte le cose che ti danno stimoli ed entusiasmo, secondo me, vanno fatte. Essendo un autore, rimango un tecnico al servizio del mio collega, non mi permetto mai di mettere bocca, a meno che non me lo chiedano. Mi piace molto questo ruolo perché mi stimola, come in passato con Roberta Torre, a fare e avere delle idee, delle possibilità: questo è il compito dell’autore, avere stimoli ed entusiasmo. Quando con Franco intervistammo Antonio Margheriti, a microfoni spenti mi disse “io ho smesso di fare film nel momento in cui mi dicevano: riunioni, riunioni, riunioni!”: aveva semplicemente perso l’entusiasmo.
E per quanto riguarda il tuo nuovo film?
Posso solo dire che ho un’idea per un film, tratta da un libro. È un mio desiderio di raccontare una particolare storia che sarà diversa da quanto ho fatto finora.
Vent’anni dopo Lo zio di Brooklyn a che punto siamo dell’apocalisse che hai evocato assieme a Franco?
È avvenuta! L’apocalisse era un nostro modo di interpretare l’abbandono, la psicologia umana. Eravamo ovunque e da nessuna parte, il nostro era un mondo dopo la guerra, dopo il disastro, quindi non erano le macerie della fame ma quelle della vita. Credo che la realtà di oggi ci dia conferma: non siamo nel mondo in bianco e nero di Cinico Tv però siamo in un disastro totale. Con Franco abbiamo sempre un po’ anticipato: per esempio al museo di Milano c’è un video del nostro ciclista (Sbarbato) che dice che Berlusconi si poteva comprare la Sicilia. Ancora non era in politica ma noi avevamo anticipato questo suo ruolo. Quel tipo di post-apocalittico veniva da un amore per il cinema fantasy, soprattutto degli anni ’50 e ’60, e il nostro desiderio è sempre stato quello di fare film di genere però raccontando, attraverso un luogo astratto, una realtà che poi era quella del popolo siciliano. Non avevamo le città ma le periferie e per questo ci dicevano che eravamo pasoliniani: con tutto il rispetto per Pasolini, sicuramente qualcosa ricordava il suo cinema ma poi con Totò che visse due volte abbiamo concluso quel percorso. Dopo è nato Il ritorno di Cagliostro che è una commedia. Quel ruolo del post-apocalittico era proprio dovuto al fatto che noi arrivavamo in televisione da una Luna spezzata in due e urlavamo vendetta.
Visto che la vostra apocalisse si è avverata ora servirà un nuovo post-apocalittico.
Non sarò a dirlo, non sono un predicatore, però siamo messi male. Ci riprenderemo perché son sempre convinto che, toccando il fondo, poi risali: questo fa parte della nostra sicilianità.
Cosa funziona e cosa no nel cinema italiano di oggi?
Il cinema italiano ha avuto dei problemi che non sono legati all’autore o alle opere in sé. Il cinema in generale sta avendo seri problemi per quello che riguarda il viaggiare con l’opera, avere l’immaginario dell’immaginario. Credo che la nuova generazione si sia persa perché siamo in un mondo di immagini, quindi andare al cinema è come stare a casa: si chiudono le tende, si spengono le luci, ma cosa frega più a tutti! Se i film non incassano, se ne faranno di meno e questo è un problema poi, però, c’è un atteggiamento da parte di alcuni media di fare un cinema che, secondo me, ormai ha perso molte stelle: la commedia. Infatti il mio film La buca, che tanti non hanno apprezzato, è un’anti-commedia che, pur raccontando una storia minimale, fa una riflessione sulla fine del “luogo” del cinema e, infatti, è una storia claustrofobica. Non l’hanno percepita così ma come una commedia: l’avesse fatto un americano di sicuro non avrebbe avuto tutte queste considerazioni. Osservando il panorama penso che ci sia una parte di cinema italiano di grande qualità che sta cercando di recuperare, con film come Anime nere o le opere di Garrone e Sorrentino. Il problema non sono gli autori ma le sale: il cinema vive nelle sale e non può vivere solo in televisione o su internet. Lo spettacolo è quello che mancherà, gli americani lo faranno sempre meglio di noi, permettendo così a questa generazione di evadere.
Sei molto legato al film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti?
Il suo film è il contrario di questo spettacolo perché è un ritorno alla fiaba. Quando l’ho visto ho pensato che tutte le critiche fossero stupide perché è un film che rielabora il cinema che noi abbiamo fatto, soprattutto quello di genere. Sicuramente Matteo la pagherà perché quando fai un film di evocazione te la fanno pagare, come è successo a me. Il cinema non è in crisi di autori ma economicamente.