Prendiamo un film di Ozu, non uno della grande rassegna che la Tucker fa circolare in questi giorni, ma uno che (a mio parere, a torto) viene considerato minore: The End of Summer, il suo penultimo. All’inizio una giovane vedova (Hara Setsuko) non senza imbarazzo incontra un possibile marito presentatole da un parente. Tornata a casa, discute con la sorella nubile, anche lei alle prese con l’insistenza della famiglia, proprietaria di una fabbrica di sakè in declino, perché si sposi.
Nel frattempo l’anziano capofamiglia, vedovo, preoccupa le figlie perché si vede di nascosto con un’antica amante ritrovata…
Ecco delinearsi il quadro ben noto a tutti gli amanti del cinema di Ozu, specie dell’ultimo periodo: una famiglia e la tradizione giapponese del matrimonio combinato. Le donne si interrogano, accettano o rifiutano. C’è il problema che lascerebbero soli il padre o la madre (il cinema di Ozu è pieno di famiglie monoparentali). Ma è il flusso delle cose, che i genitori restino soli o muoiano: tutto, a partire dalla famiglia, è sottoposto al ciclo inevitabile del cambiamento.
L’insieme dei film di Ozu si potrebbe paragonare a un alveare, una struttura in cui ogni cella serve da sostegno e parete alle altre. Li collega fra loro un intenso gioco di rimandi e variazioni, situazioni ritornanti, personaggi simili, luoghi fisici, riprese di battute di dialogo. Figure simili tornano di film in film, compresi i bambini terribili che popolano il suo cinema da soli o in coppia, spesso con lo stesso nome, Minoru e Isamu. Troppo poco si parla del filo rosso di umorismo che attraversa i suoi film come un fiume carsico, ora scorrendo in superficie ora rispuntando fuori nei momenti più imprevisti. Per esempio nel triste e bellissimo Viaggio a Tokyo, quando Ryu Chishu torna di notte solennemente sbronzo a casa della figlia Sugimura Haruko, la scena – senza che si perda il sottofondo drammatico – è pura comedy.
L’elemento costitutivo del cinema di Ozu è uno stile che si vorrebbe dire astratto, e lo è, ma questo termine sembra implicare un allontanamento dalla concretezza psicologica e quindi dalla possibilità di empatia dello spettatore: mentre invece, se amiamo tanto Ozu, è anche perché il nostro cuore di spettatori si trova in comunicazione diretta col cuore dei personaggi.
E non abbiamo parlato della forma: la grande maniera compositiva di Ozu, con la macchina da presa in posizione inusualmente bassa, l’inquadratura che diventa una composizione di linee, in accordo con l’architettura della stanza giapponese. E le inquadrature “vuote” di esterni che costellano i film intessendo le scene in interni come pause musicali. E poi la distanza radicale dalle regole di montaggio occidentali classiche, sicché abbiamo dei rovesciamenti di campo di naturalezza assoluta. In Ozu lo “sguardo narrante” del cinema sembra coincidere col mondo. Tale è il miracolo di questo autore: unire l’astratto e il concreto, la serenità e la commozione – l’effimero della vita e l’eterno dello stile.
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