La fede e la maternità a Litchfield
Nella prima stagione di Orange Is the New Black c’era Piper, sprovveduta, spaventata, troppo ben educata per stare in prigione. Nella seconda è oramai nel suo ambiente naturale, parte integrante di Litchfield, penitenziario governato da regole simili a quelle del mondo “fuori”.
In questa terza Piper è incastrata in due rapporti sentimentali che la distruggono – Alex e la new entry Stella − e imbrigliata a doppi legacci nelle leggi di galera: apre un traffico su internet, è lucida, ordisce macchinazioni per rimanere a galla, vestendo i panni di una sorta di Padrino. Detto così sembrerebbe che la serie Netflix sia solo il racconto della vita di Piper, fatta di cambiamento e ricostruzione; invece no, infatti Jenji Kohan ha messo in secondo piano la protagonista concentrandosi sulle storie dei personaggi secondari. Ed è questo che rende Orange Is the New Black un prodotto affascinante e articolato insieme. Lo abbiamo già detto, la serie è rappresentazione di tutte quelle dinamiche socioculturali che sono proprie del vivere la comunità: differenze razziali, sessuali (per esempio Boo o il personaggio di Burset), religiose. Ed è proprio la religione che rompe e crea legami, plasma le menti: in modo ironico l’ideatrice svela e smaschera quanto di cinico, spregiudicato e opportunistico ci sia spesso nel rapporto con l’Alto, di quanto la fede sia talvolta questione di paura e solitudine. Così per mangiare cibo migliore si finge di essere ebree – meravigliosi gli “esami” che devono sostenere con il rabbino −, così in un gioco di reiezione la muta Norma diventa divinità monoteista che ha poteri salvifici: un suo abbraccio commuove, un suo tocco rasserena, un suo sguardo induce la felicità. Le sue adepte si aggrappano a qualsiasi cosa per avvertire la presenza dell’altro accanto a sé ma, nonostante debbano praticare la gentilezza, sono spesso grette, meschine, cattive. Kohan indaga anche ciò che più si avvicina nell’immaginario comune alla consolazione, all’amore e all’abnegazione, cioè la madre e la maternità (ne è il simbolo Dayanara), ma tutto alla sua maniera. La miglior analisi sulla maternità fatta da Kohan è quella della prima puntata, in cui si celebra la festa della mamma: esistono anche madri anaffettive, brutali, egoiste, poco presenti, gelose. Così Dayanara attende un figlio sperando di non commettere gli sbagli della madre, Doggett compone un cimitero delle creature mai nate e Burset accoglie il figlio in una giornata che anatomicamente non le appartiene ancora. Orange Is the New Black continua ad essere una serie ben scritta, presente a se stessa e Kohan ci stupisce di nuovo dandoci le carte per poi sparigliarle, insinuandoci dubbi, indicandoci una strada per poi costringerci a percorrerne un’altra. L’ideatrice si addentra ancora di più nelle esistenze passate e presenti delle sue detenute che si autodeterminano ad ogni passo (il discorso di Piper in piedi sul tavolo), intrecciandovi una complessa riflessione sulla fede e sulla maternità.
Orange Is the New Black [id., USA 2013-in corso] IDEATORE Jenji Kohan.
CAST Taylor Schilling, Kate Mulgrew, Laura Prepon, Michael J. Harney, Taryn Manning.
Commedia/Drammatico, durata 51-52 minuti (episodio), stagione 3.
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