Fine trasmissioni, pubblicità
Con il saluto finale di Mad Men c’è chi già parla della fine di una certa epoca della serialità televisiva, quella dei grandissimi quality drama che hanno lanciato nell’iperuranio il livello medio del racconto seriale.
Solo il tempo e le scelte commerciali di vecchi e nuovi canali risponderanno alla questione, intanto nell’ultimissimo atto della serie di Matthew Weiner, tutto entra nel quadro in modo un po’ più frammentario del solito: laddove la prima metà di stagione, andata in onda l’anno scorso, era compatta e puntellata di precisissime linee narrative (il ritorno ridimensionato di Don dopo il semi-licenziamento; l’arrivo del computer; il toccante rapporto con Sally, quello che va a rotoli con Megan) e di episodi-capolavoro (7×04 The Monolith; 7×06 The Strategy), la seconda metà appare più dispersa in pezzi di vite che progressivamente si allontanano l’una dall’altra, ognuna da riallacciare con se stessa e non più nell’insieme familiare della SC&P: perché nel momento in cui l’ennesima, definitiva rivoluzione tra le mura dell’agenzia si compie, sappiamo che è davvero finita. Surrealmente e magnificamente salutato da una delle migliori sequenze dell’ultima parte, il duetto per organo e pattini di Roger e Peggy in Lost Horizon, lo scenario di gran parte della vita lavorativa dei protagonisti si disfà davanti ai nostri occhi e lascia il posto agli angusti spazi del colosso McCann-Erikson, con i suoi clienti a cinque stelle (per la cronaca, McCann è davvero l’agenzia pubblicitaria della Coca Cola). Don Draper invece lo avevamo ritrovato di nuovo nel pieno possesso di charme e potere, a ciondolare tra serate di vizi e diversivi. Poi l’ennesimo incontro profondo e inutile, la fine del matrimonio, la smaterializzazione dei luoghi (la casa) e di se stesso: non appena approdato alla mega-agenzia, si rende conto di essere un altro paio di maniche di camicia in un ingranaggio ben oliato di creativi intercambiabili, e allora se ne va, di nuovo in fuga e in continua ricerca di nulla. Verso la fine è saldamente lontano, fisicamente e psicologicamente, e ci lascia rassegnati nella constatazione del suo destino di perno irrisolto e sfuggente di un affresco dove tutto e tutti cambiano tranne lui. Non si tratta più nemmeno dello sprofondare nell’oscurità né degli echi di morte delle stagioni precedenti: Don è solo con se stesso, il suo passato e i suoi tormenti, mentre le risoluzioni sembrano rimanere altrove, nel doloroso finale di Betty, nell’unione folle di Roger e Marie, nel finale chissà quanto luminoso di Pete, e soprattutto nel lieto fine romantico di Peggy, e in quello di Joan, che si disinteressa delle lusinghe di una vita agiata e senza responsabilità offerta dalla sua ultima conquista per dedicarsi a ciò che sa fare meglio. È qui che Weiner ci prende sonoramente in giro, ci fa credere e temere che una ricerca interiore, così out of character e disorientante, possa curare Don, per poi ribaltare tutto nell’ultimissima inquadratura, brutalmente e furbescamente. Dopo aver vissuto e arrancato per due esistenze, l’ultima personale conquista di Don è allora ammettere di essere esattamente quello che è stato nella vita della serie: un grande, geniale advertiser.
Mad Men [id., USA 2007-2015] IDEATORE Matthew Weiner.
CAST Jon Hamm, Elisabeth Moss, January Jones, John Slattery, Jessica Paré, Vincent Kartheiser, Christina Hendricks.
Drama, durata 45 minuti (episodio).