L’uomo di Sorrentino: potere, solitudine e fragilità
Il volto di un uomo trafitto da una serie di aghi (Il Divo), la profondità del mare indagato dalle luci di tre sub (L’uomo in più), la città eterna fulgente nella sua grande bellezza (La grande bellezza). Paolo Sorrentino, in concorso a Cannes con Youth – La giovinezza, si è mostrato capace di creare mondi pieni di tensione narrativa, intensità lirica e poetica, con uno stile e un’idea autoriale ben precisi.
Fin da L’uomo in più, suo primo lungometraggio, è chiaro come Sorrentino abbia grande forza creativa, conoscenza del mezzo, voglia di raccontare la realtà ma anche di trasformarla, rendendola allegoria, simbolo, ingigantendola o ridimensionandola. L’immagine che fuoriesce dalle sue mani di demiurgo è quella di un mondo denso, abitato da uomini fragili, fiaccati spesso da emicrania (Il Divo, L’amico di famiglia), tormentati da insonnia (Le conseguenze dell’amore), asociali, spinti e sospinti da dinamiche crudeli: potere, soldi facili, regole brutali affaticano i piccoli o grandi uomini del suo cinema. Sembrano individui privati di umanità quelli di Sorrentino, ma sono anche struggenti nella loro malinconica poesia – Geremia e il suo amore per Rosalba e per la madre, Ramona o Romano in La grande bellezza; se l’universo diegetico, pronto a sopraffarlo, è cannibalico nei confronti dell’uomo, l’occhio del regista invece segue i personaggi con distacco quasi asettico, ma paradossalmente anche con tenera vicinanza. Gli eroi sono limitati, segregati nella loro trista esistenza e infelicità, esclusi dal mondo e da se stessi (L’amico di famiglia), imbrigliati e gettati nella più profonda solitudine (This Must Be The Place, Youth), seguiti nell’istante della caduta (L’uomo in più, Il Divo). I due Antonio Pisapia (L’uomo in più) un tempo all’apice del successo ora sono dimenticati da tutti – l’ex giocatore cade nell’autodistruzione, il cantante è intrappolato nel suo ego e non riesce ad accettare la sua condizione. L’amico di famiglia Geremia è sgraziato, riprovevole, impresta danaro in nome del suo buon cuore, ma poi svilisce e umilia i suoi debitori in nome della cattiveria che il mondo gli ha riservato. Il Divo Giulio Andreotti è nel momento del declino: gesti “mostruosi”, “maschera” disumanizzata e inaccessibile, intrappolato a metà tra tribunali e aule del potere. Un branco ondeggia in non luoghi, caratterizzati da rigore geometrico e da immaterialità liquida, interni squarciati da una luce caravaggesca o esterni vibranti di colori forti, luoghi che hanno la stessa consistenza dei personaggi, quindi reali ma anche impalpabili, un po’ onirici, ma fortemente materici. Jep Gambardella (La grande bellezza) è personaggio della memoria, del ricordo, sembra provenire da un altro mondo, eppure è fortemente terreno, emblema del vivere del nostro tempo. Cheyenne (This Must Be The Place) è uomo-bambino, dalla figura quasi grottesca e disumanizzata ma pieno di sentimenti disperati e umani, protagonista di una favola nera, ex divo alla ricerca del nazista che aveva umiliato suo padre. La scrittura di Sorrentino con metafore e simboli, genera dubbi, domande e il suo cinema, visionario, con ogni movimento di macchina, spinge lo spettatore al sogno, alla riflessione, alla scoperta.