SPECIALE REBOOT
La bestia fuori
C’era una volta Un lupo mannaro americano a Londra in cui, dietro l’ironia di chi giocava con il genere inserendolo in un contesto metropolitano, il suo incipit prendeva inizio proprio da una modulazione di quell’atmosfera nebbiosa e notturna della solitaria brughiera inglese, da cui il mito del licantropo ha trovato posto nell’immaginario comune.
La matrice era ovviamente quella de L’uomo lupo, il classico della Universal targato 1941 e diretto da George Wagger. La nebbia avvolge la scena, le luci nascoste dietro la cortina fumogena e gli alberi ne esaltano l’estensione volumetrica, i boschi illuminati artificialmente così da simulare il chiarore della luna piena sul blu scuro del cielo e il senso fisico di un trucco artigianale che gradualmente, come per un’abominevole magia, copre il corpo di una mostruosa peluria fino ad estendersi sul volto tutto. L’uomo lupo iconograficamente nel nostro immaginario è questo, in particolar modo nel reboot/remake di Joe Johnston The Wolfman, prima ancora delle analogie narrative tra le due versioni, nella tragica vicenda di Lawrence Talbot rimasto contagiato dalla maledizione della licantropia. Storia e personaggi sono quasi inalterati, seppure sia dato maggior risalto al rapporto amoroso tra Lawrence e Gwen, e gli zingari non sono più i portatori della maledizione ma – nella nuova versione – d’iniziale capro espiatorio per la diffidente comunità di Blackmoor, traslando solo successivamente le colpe per generare un conflitto edipico tra padre e figlio. Il film di Joe Johnston si riconosce nell’originale in ciò che dicevamo in precedenza, si nutre dell’atmosfera che non è solo un richiamo al romanticismo gotico tipico delle produzioni orrorifiche classiche della Universal, diventate riconoscibili fin dalle prime realizzazioni firmate James Whale, ma paradigma di un horror che vive del contesto fotografico, costumistico e scenografico. The Wolfman in fondo rappresenta lo stesso tipo di operazione fatta poi per The Woman in Black (2012) dalla rinata Hammer, altra casa di produzione diventata storica grazie ai suoi paradigmi estetici, seppur con una diversa perizia artigianale e minor sentimento. Joe Johnston in fondo non ha fatto altro che realizzare il miglior compromesso possibile nella sua nuova reincarnazione dell’uomo lupo, tra il desiderio di realizzare un horror gustosamente imperniato della Golden Age hollywoodiana, e cedere alla fastidiosa necessità degli studios contemporanei di rendere il tutto il più appetibile, infarcendo la pellicola di un certo dinamismo che poco c’entra con il genere classico di riferimento. Gli anni dell’equilibrio tra rinnovamento e gusto cinefilo per la tradizione di John Landis e Coppola, con il suo Dracula, purtroppo sono passati, ma questo però non impedisce allo spettatore lo stesso d’immergersi in mezzo alle fitte nebbie – finte – dei boschi nella brughiera inglese. I luoghi in cui alberga davvero, nel nostro immaginario, la bestia.
The Wolfman [id., USA 2010] REGIA Joe Johnston.
CAST Benicio del Toro, Emily Blunt, Anthony Hopkins, Hugo Weaving.
SCENEGGIATURA David Self, Andrew Kevin Walker. FOTOGRAFIA Shelly Johnson. MUSICHE Danny Elfman.
Horror, durata 118 minuti.