La fantasia del Reale
Che Matteo Garrone avesse delle premure effettive e lampanti per la ricerca di un realismo inteso come spazio magico contenente (quasi) assolute verità, era cosa già molto evidente dal primo lungometraggio realizzato nel 1996, quel Terra di mezzo che – rivisto oggi – fa sicuramente emergere agli occhi qualche ingenuità nella messa in scena, ma che dimostra di non aver perso nemmeno un briciolo della sua forza comunicativa.
Inizio di carriera, questo, che si dimostra incredibilmente emblematico anche in quanto quella specifica capacità di focalizzare l’attenzione sugli emarginati, gli esclusi e gli illusi, sarà la carta vincente di tutto il suo cinema a venire. Un cinema che trova allo stesso modo un’altra arma principale nel “contatto” dell’occhio che riprende con l’attore che recita e che cerca, nelle pieghe emozionali dell’improvvisazione di quest’ultimo, la possibilità di creare un linguaggio particolarmente innovativo. Pensiamo, per esempio, a due film come L’imbalsamatore e Primo amore: due opere che si ispirano a fatti di cronaca, con tutto il loro bagaglio di tragedie brutalmente a contatto con la quotidianità, ma che costruiscono il loro senso e il loro discorso sulle impalcature tipiche del cinema di genere. È proprio qui, infatti, che avviene il cortocircuito; perché è come se la realtà – sempre di qualità purissima – irrompesse ancor più violentemente sullo schermo proprio per questo suo essere in qualche modo trasfigurata: il linguaggio realistico, realista e a tratti sottomesso a una forma di costruzione della scena dovuta all’estemporaneità si scontra con una precisa struttura che vuole invece raccontare la favola (o l’incubo, a seconda dei casi) tipica dei generi e che ha quindi, prima di ogni altra cosa, il bisogno di esporre i fatti con modalità formalmente ineccepibili. Si crea perciò una forte opposizione tra reale e fantastico, che è poi la principale cifra stilistica di Garrone. Un conflitto che diviene forse meno presente in Gomorra – unico film del regista dove il vigore prorompente della realtà sociale nella quale lo troviamo per forza di cose immerso attenua l’esercizio di quell’altrove figurale e metaforico, chiudendo tutte le vie di uscita adibite allo scoprimento di ulteriori sensi insiti nell’opera – ma che sicuramente torna con grande prepotenza in Reality. È un’opera, infatti, quest’ultima, che cerca di procedere lentamente – ma con un intenso flusso – in una direzione verso cui la realtà che circonda il protagonista tende a “scomparire” completamente, facendo emergere al suo posto una virtualità del reale che dimostra di attuarsi prepotentemente nell’istante in cui si abbia un contatto illusorio con un sistema “letale” come quello prodotto da un reality show. Il racconto dei racconti, l’ultimo film del regista romano, allora, chiude il cerchio di questo vasto discorso dimostrando come l’insistenza su un certo tipo di valori stilistici sia ancora pressante. Come Garrone ha affermato: “Le storie raccontate ne Il racconto dei racconti descrivono un mondo in cui sono riassunti gli opposti della vita: l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale e lo scurrile, il terribile e il soave”. Perché la vita, in fondo, non è nient’altro che un rapporto perenne tra realtà e fantasia.