In prima persona, alla ricerca dell’altro
Era il 1976 quando un ventitreenne esordiente romano firmava in Super8 il suo primo lungometraggio, destinato a una lunga programmazione al Filmstudio in Trastevere: nasceva un nuovo autore, in polemica con il consolidato cinema italiano, capace di restituire nelle sue storie una spiccata lucidità verso le contraddizioni, pubbliche e private, della società giovanile, del suo impegno politico, delle sue relazioni.
Da allora, il cinema di Nanni Moretti si è nutrito di due spinte uguali e contrarie, miracolosamente complementari nel consacrare il regista a un progressivo successo, nazionale e internazionale, sempre all’insegna di un’incondizionata libertà produttiva. Da una parte l’urgenza di un cinema in prima persona, dove il regista fosse personaggio e portasse con sé, opera dopo opera, le tracce di un’autobiografia esistenziale; dall’altra, la capacità di intercettare un pubblico ampio che, col tempo, si sarebbe consacrato affettivamente ai suoi lavori, alla loro ironia e tenerezza, riconoscendo in Moretti qualcosa di più di un regista: una voce-guida, una figura pubblica, un amico attraverso il cui sguardo fosse possibile fare un bilancio del tempo che passa, di come il mondo e la nostra vita si trasformino, si smarriscano, si riassestino.
Intimista e insieme politico, Moretti ha trasfigurato nel sogno, nel ricordo, nella pagina di diario, una riflessione aperta su se stesso come intellettuale e come borghese, amato da molti, da altrettanti detestato. Capace di muoversi con grande agilità su scritture completamente divergenti, ha attraversato la parodia della realtà, la prefigurazione sociologica, il racconto di genere, la messinscena della messinscena, l’autobiografia d’artista, padre, marito e militante, per rifugiarsi negli ultimi anni in una finzione più spiccatamente tradizionale, che in parte ne ha offuscato le attitudini di partenza.
Generalmente essenziale a livello visivo, autarchico nella scelta e direzione degli attori, Moretti ha fotografato a più riprese l’urgenza di una relazione: con la propria identità, con i sentimenti, con le responsabilità individuali, con la famiglia, con Roma e i suoi cittadini, con un’idea di politica, con la morte, con un intero Paese all’apice del collasso culturale e istituzionale. Sulla nostalgia – ora del passato, ora del futuro – si è fondata la sua elegiaca ricerca di un tu, di un cinema sì in prima persona, ma sempre proteso alla speranza di un incontro. Un cinema non privo di preziose discontinuità, ora espressione di una grande inventiva verbale, ora figlie della capacità di colorare la realtà con pennellate surreali e immaginifiche.
Contrariamente a quanto meriterebbe, in questi giorni il suo ultimo film sta ricevendo lodi sperticate e commosse per le ragioni sbagliate. Non è la qualità cinematografica, a tratti francamente traballante, a colpire maggiormente di Mia madre: nella scomparsa del più fedele dei tu, quello materno, a convincere è piuttosto la sincerità con cui Moretti definitivamente confessa la sua crisi, il suo smarrimento, il suo bisogno di ripartire. Sentimenti che non stanno sotto al film, ma sono il film stesso: le inquadrature, le proposte di regia e di racconto. Nell’indefinito e insieme puntuale “domani” con cui il film si chiude, a Moretti auguriamo di ritrovare una nuova serenità, e un nuovo slancio.