Che cosa è il servizio pubblico? Una domanda che dovrebbero porsi tutti quelli che si occupano di audiovisivo al di fuori delle ideologie o delle polemiche di parte. Se ne sta riparlando in questi giorni e il governo Renzi ha fatto sapere di voler rimettere mano una volta per tutte alla governance della RAI. Ma è tutto come prima? Oppure no?
Fino a qualche anno fa era di moda vantarsi di non pagare il canone. “Che lo pago a fare?”, si sentiva dire alle cene, “devo finanziare di tasca mia i talent scopiazzati da Mediaset?”. Ovviamente, per chi faceva disobbedienza civile era difficile pensarla come elusione fiscale, cosa che effettivamente è, ma era altrettanto difficile per gli oppositori trovare strumenti per difendere mamma RAI. Oggi l’elusione dell’abbonamento è probabilmente la stessa di allora, ma è più difficile generalizzare. E tutto questo per la semplice ragione che esiste il digitale terrestre. Ciò che prima aveva a che fare con tre canali lottizzati, con prime serate da brividi, fiction da conato, e il contorno di qualche talk show, ora è molto più ampio e differenziato. Non serve rimpiangere come un mantra la Rai Tre di Guglielmi, i profili delle reti RAI sono assai interessanti. E se le tre ammiraglie sembrano continuare stancamente nei propri riti, è dentro la programmazione di cinema e TV di RAI 4, o (finalmente) nel teatro e musica tanto evocati e ora presenti su RAI 5, o ancora nella solida programmazione di RAI Movie e RAI Storia, persino nella copertura di sport minori di RAI Sport, che troviamo le ragioni del servizio pubblico. Quella dimensione pedagogica che, nella natura stessa della televisione di Stato, deve oggi dotarsi di intelligenza e capacità di innovare, spiazzare e proporre: qualcosa, insomma, a metà tra una linea editoriale aggiornata ai tempi (alla Freccero, per intenderci) e una vocazione culturale che archivia e mostra le nostre eccellenze; qualcosa che mette insieme le serie americane in prima visione free e la manifestazione lirica di provincia. Difendere le nicchie e proteggere dal prevalente senza rinunciare alla letteratura televisiva di qualità, o – se lo si crede – allo sperimentalismo di massa. Si può, tuttavia, eccepire: “Ma chi li guarda quei canali?”. Giustissimo. Dove stanno tutti quelli che all’epoca del duopolio lamentavano l’assenza di cultura sulle reti pubbliche e criticavano la scomparsa del cinema in prima serata come se ne andasse della loro vita? Fanno troppa fatica a digitare due numeri sul telecomando invece che uno solo? Non riescono a resistere alle sirene di The Voice of Italy? Ancora: “Sì ma che differenza c’è tra una rete privata come La Effe e una pagata da noi della RAI?”. Una delle differenze sta nel pacchetto di canali che la RAI offre, cercando di coprire tutti i generi palinsestuali e, appunto, garantendo la visibilità minima a oggetti culturali che altri, tra cui La Effe, non mostrerebbero. Un’altra è nella promessa di non fallibilità: se il mercato esclude il canale che amiamo, è finita. Con la RAI, il concetto di pubblico dovrebbe garantirne la prosecuzione. Ora, è ovvio che il canone da solo non regge l’intera piattaforma di reti RAI. Modesta proposta: e se vendessimo due delle tre reti maggiori e ci tenessimo le piccole RAI digitali di contorno? Ovviamente nessuno parla delle reti RAI minori in questi giorni, e tutti urlano la propria opinione sul servizio pubblico con discorsi buoni per i primi anni Duemila. Per un dibattito politico che inneggia sempre al nuovo che avanza non un bello spettacolo. E comunque, il telecomando è lì. Dipende da noi.