Cadaveri eccellenti
Il film si apre sul cadavere del celebre bandito siciliano (Pietro Cammarata), prono al suolo. Castelvetrano, 5 luglio 1950. Le prime inquadrature di Salvatore Giuliano, fisse in campo lungo dall’alto e in campo medio ad altezza d’uomo, accompagnano la monotona lettura del verbale di ritrovamento del corpo.
A prima vista, il film di Rosi potrebbe sembrare una puntigliosa ed esatta ricostruzione dei fatti. Insistendo sulla fisicità di Giuliano e sulla precisione linguistica del procuratore che interviene per la futile correzione di una semplice preposizione, l’autore ci lascia infatti immaginare l’esistenza – e la conoscibilità – di una verità precisa. Assunto che tuttavia viene immediatamente smentito dai successivi movimenti di macchina, i quali percorrendo – in direzioni opposte – il cadavere del bandito, fungono da contrappunto, da contro-narrazione, ai rilievi tecnici ufficiali, così evidenziando la precarietà della cornice iniziale. Perchè, come rileva Mancino, il punto di partenza del Salvatore Giuliano di Rosi è esattamente l’opposto di quello che potrebbe sembrare. Esso consiste piuttosto in una fondamentale presa di coscienza: quella cioè della finitezza dello spazio di sapere disponibile, e della conseguente necessità di proiettarsi oltre i suoi angusti confini.Margini di conoscenza – le strette inquadrature sul corpo di Giuliano – che, paradossalmente, costituiscono anche una possibilità di apertura alla comprensione delle cose. Illuminare la storia recente attraverso quella passata; leggere la storia passata in funzione di quella recente.
Distribuito nelle sale italiane nel marzo 1962 – l’anno in cui muoiono Enrico Mattei e il boss Lucky Luciano, figure che Rosi aggiungerà al suo mosaico dei misteri italiani –, dopo essere stato per alcuni mesi al vaglio della censura, il film ottiene peraltro un sorprendente riscontro di pubblico, pur non potendo contare su evidenti richiami divistici (sia Salvo Randone, nel ruolo del giudice che presiede al processo, sia Frank Wolff, nei panni di Gaspare Pisciotta, sono quasi sconosciuti al pubblico cinematografico italiano). Progetto risalente al 1951, quello del Giuliano, all’anno in cui Rosi collabora con Visconti alle riprese di Bellissima, quattro anni dopo la collaborazione per La terra trema. Ed è infatti da quest’ultima esperienza che il Salvatore Giuliano di Rosi trattiene molto, idealmente proseguendo l’indagine cinematograficamente incompiuta del maestro. Quella di Visconti, per Rosi, rimarrà una lezione di metodo fondamentale. Tanto che in Salvatore Giuliano – scritto assieme a Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas – la matrice investigativa non viene celata. Vero punto di forza del film, essa aggancia in primo luogo la figura del cronista che pronuncia una delle battute chiave: “Di sicuro c’è solo che è morto” – battuta tratta dal titolo dell’inchiesta giornalistica di Tommaso Besozzi apparsa sull’ “Europeo” il 16 luglio 1950 – ed in secondo luogo la voce narrante dello stesso regista, per poi transitare nel personaggio del giudice (Randone) durante la Corte d’Assise di Viterbo. Aiutato dalla fotografia di Gianni Di Venanzo (in tre diversi toni di bianco e nero) e dal montaggio di Mario Serandrei, ad una lacunosa ed insufficiente messa in scena della realtà, Rosi oppone, secondo una logica tutt’altro che lineare, la sua personale ricerca di ciò che dietro di essa si nasconde. E ricostruendo un quadro altrettanto parziale, chiude la sua inchiesta su un altro cadavere eccellente, nel 1960. In realtà aprendo nuove piste su cui indagare, Rosi ci lascia l’urgenza della sua ricostruzione: l’invito a ricercare più che le cause, i significati profondi.
Salvatore Giuliano [Italia 1962] REGIA Francesco Rosi.
CAST Pietro Cammarata, Frank Wolff, Salvo Randone, Sennuccio Benelli, Max Cartier.
SCENEGGIATURA Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale, Francesco Rosi, Franco Solinas. FOTOGRAFIA Gianni Di Venanzo. MUSICHE Piero Piccioni.
Drammatico/Film d’inchiesta, durata 123 minuti.