Approfittiamo della “sniper-mania” che l’incredibile successo del film di Clint Eastwood ha suscitato. Mania che ovviamente non si limita a coloro che il film lo apprezzano e sostengono, ma al massiccio gruppo di commentatori e critici che se ne stanno occupando, anche in modo ostile, complice la gran cassa dei media americani. Non interessa più di tanto comprendere il perché degli incassi stratosferici che sta accumulando in tutto il mondo (sebbene una riflessione meno occasionale sia in futuro consigliabile), quanto chiederci chi se ne sta occupando e come.
Vale anche per Sottomissione, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, al centro come noto di avvenimenti più grandi e tragici sia dello scrittore sia del romanzo. Un romanzo, peraltro, ottimo, e di rara sottigliezza, molto più legato alla visione decadente e mortuaria dell’uomo europeo che il romanziere ci racconta da anni piuttosto che alla questione islamica e alla dimensione fantapolitica (pur a tratti molto appassionante). Anche in questo caso, ciò che è stato scritto del libro è molto deludente, e gli strumenti critici sono spuntati, superficiali, inadatti. Non è un caso che l’unico approfondimento di spessore sia venuto dal romanziere “rivale” di Houellebecq, Carrière, che ha saputo leggere tra le righe meglio dei critici di professione.
I due casi di Eastwood e Houellebecq spingono a una riflessione un po’ più ampia. Che cosa differenzia oggi un intellettuale da un amatore? Cioè uno studioso con tutti i crismi, che si esprime “anche” giornalisticamente, e un pur bravo commentatore di fatti artistici e comunicativi? La storia sembrava insegnarci che i due mondi si stavano avvicinando, e che ormai avremmo assistito alla fusione ormai completa dell’intellettuale perso nelle sue pensose meditazioni e dell’interventista poligrafo, vivace e brillante, che commenta tutto quel che passa il convento sui vari media. Si mondanizza il primo, si specializza il secondo. Cede un po’ di aura il primo, conquista un po’ di erudizione il secondo, nell’era del web.
Pare proprio, invece, che la seconda dimensione stia rapidamente inglobando la prima. Intendiamoci, di intellettuali parolai e ospiti fissi nei talk show ce ne sono sempre stati, ma non è a questo che ci riferiamo. Piuttosto, quanti critici della cultura, quanti intellettuali nel senso meno parodistico del termine, quanti veri saggisti oggi alzano l’asticella, ribaltano le letture correnti, rovesciano la prospettiva, conducono il mondo a vedere le cose con altri occhi (perché poi è questa la vera pratica, diremmo persino connaturata, all’intervento intellettuale) ?
Davvero pochi; rischiamo di trovarci in un mondo di amatori (che è differente da dire “dilettanti”, definizione ingenerosa), dotati di una cultura media, di una sensazione di sapere diffuso garantito dal web, di una gratificante capacità di descrivere testi artistici, di una buona capacità di scrittura, ma infine davvero sprovvisti della conoscenza e della finezza necessarie a vedere in profondità e mutare l’ordine delle cose.
Possiamo cominciare a dire che, senza apparire apocalittici o mediafobici, dopo tanti anni di elogio del web e della sua civiltà, stiamo perdendo qualcosa? Che qualcosa va affiancato, a cominciare da studi letterari e filosofici più profondi, ancorché personali? Che dovere di un grande critico è anche quello di essere un umanista vero e proprio?
Detto questo, non tutti per fortuna dobbiamo essere intellettuali. O grandi critici. Ma se il critico/amatore sa di essere in difetto, e ammette di dover imparare molto, certamente diverrà ben presto un critico migliore.