Se c’è un regista sottovalutato non posso non pensare a Steven Soderbergh. Il suo stile così camaleontico è alquanto difficile da decifrare, pronto sempre a rinnovarsi, a giocare con l’oggetto cinema, mettendo in scena, come un divertito inventore, le regole del suo farsi cinema, in una perenne trappola che vede il reale trovare delle linee guida solo indossando il suo travestimento finzionale.
The Knick ne è l’ennesimo esempio. Siamo a New York, inizio ‘900. L’occhio entra nelle viscere del tessuto sociale del tempo come il Dr. John Thackery nei corpi dei suoi pazienti. È una questione di mani, mani che fanno vibrare la macchina da presa, mani che affondano nel sangue, mani che curano ma possono distruggere, mani che cercano una pace dei sensi, mani che creano. Soprattutto mani che fanno cinema. Thackery seda il suo tormento con la cocaina e taglia, drena, cuce, sperimenta alla luce di un Teatro Operatorio ben lontano dall’oscurità della città circostante. Lo spettacolo ha inizio, gli astanti possono verificarne la qualità.
Certo, potremmo immergerci nella stratificazione tematica che questa serie porta inevitabilmente con sé, tutta incentrata su un contrasto, sia questo di natura sociale, razziale, religiosa, ma non c’è tempo. Come ribadisce Clive Owen a contare sono solo i mezzi, i fini lasciamoli allora da parte.
Guardiamo quindi il contrasto su un piano più specificatamente cinematografico. Se chiudiamo gli occhi, la sensazione è quella di un movimento ondulato in steady-cam e contemporaneamente sussultorio grazie all’uso della camera a mano, con inquadrature spesso fuori asse e veri e propri sbalzi della messa a fuoco. Il tempo, nel momento di transizione verso il progresso, è sospeso in un limbo ipnagogico, una tensione intermedia tra il fermento dell’emotività, tra paure, tormenti e giudizio, e la fiducia verso il futuro. Soderbergh riesce a rendere palpabile questa dinamica, intorpidisce lo spettatore con il contributo del suo fidato Cliff Martinez, la cui colonna sonora funge da vero e proprio narcotico, e lo muove in direzione di una luce che cerca insistentemente di emergere dal buio (la fotografia perlopiù naturale è sempre opera del regista). È il compimento di un atto creativo che parte dalla ricerca tra i meandri del mondo circostante e giunge pienamente illuminato su una tavola operatoria. E come ogni opera d’arte, a volte, i risultati non sono quelli che ci prefiguriamo.
Con The Knick, ulteriore prova schiacciante di come la serialità televisiva stia raggiungendo picchi altissimi non solo di scrittura (Fukunaga l’ha dimostrato poco tempo fa con True Detective), assistiamo a uno sguardo che cerca attraverso la tecnica di risanare le ferite della vita di tutti i giorni, correggendole e reinterpretandole.
Artificialmente. Artigianalmente. Soderberghianamente.