Caggiono i regni intanto/Passan genti e linguaggi: ella nol vede/E l’uom d’eternità s’arroga il vanto. (Giacomo Leopardi, La ginestra o Il fiore del deserto).
Davanti all’attracco dell’Excelsior aspettiamo passare il cadavere di Venezia 71, un’edizione all’insegna della mestizia e del pessimismo cosmico leopardiano che, per una strana beffa del destino, si trova a essere protagonista di una delle pochissime visioni memorabili di questo Festival ormai agonizzante. Tutto è iniziato qualche anno fa, con l’apertura dell’orrendo squarcio davanti al Casinò: doveva essere la sede del nuovo Palazzo del Cinema, è diventato il Ground Zero del Lido. Da allora in poi, giù per un ripido declivio che quest’anno sembra aver toccato il fondo (ma mai dire mai). Dopo l’annuncio di un programma imbarazzante, con la diserzione totale dei grandi nomi che hanno preferito Toronto o addirittura il piccolo ma crescente Festival di New York (David Fincher, Paul Thomas Anderson), dopo la scelta di una giuria semisconosciuta, presieduta dal pur bravo Alexandre Desplat, dopo l’assenza totale di divi da red carpet (ci si è dovuti accontentare di un senile Al Pacino e del prezzemolino James Franco), la defezione del pubblico e degli accreditati, anche il lato glamour è stato totalmente ridimensionato, come vuole Mamma Crisi. Niente più terrazze brandizzate e feste esclusive, niente più stand per cinefili al Movie Village: solo i soliti, irriducibili chioschetti dove è sempre possibile avere uno spritz a due euro in bicchiere di plastica. Vero è che qualche pellicola notevole, dentro e fuori concorso, si è vista (pensiamo a Birdman, a Belluscone, a Il giovane favoloso) e che il Leone d’Oro a Roy Andersson ha riconciliato con questa Mostra molti animi tempestosi. Ma la presenza di certi titoli abominevoli in competizione (su tutti, Good Kill, sciocco polpettone hollywoodiano) e la scelta di altri solo per creare sensazionalismo e polemiche (Pasolini di Abel Ferrara in qualunque altra kermesse sarebbe stato relegato al mercato, com’è stato a Cannes per il precedente Welcome to New York) non fanno che portare malcontento. Si conclude la débacle con una doppia Coppa Volpi affibbiata a due protagonisti di Hungry Hearts di Saverio Costanzo: francamente un film brutto, ma non certo a causa degli interpreti. Quello che disturba, però, dopo il controverso Leone d’Oro a Sacro GRA dello scorso anno, è la volontà provinciale di dover celebrare le “glorie” di casa nostra, quasi una beffa a Elio Germano e al suo ottimo Leopardi, e la mancanza di una presa di coscienza franca e responsabile sulle condizioni preoccupanti in cui sta versando la Mostra. D’altro canto, senza glamour, e, soprattutto, senza cinema Venezia non ha più ragione di esistere: sarebbe meglio che, anziché optare per un malsano negazionismo, si affrontasse apertamente il problema e ci si interrogasse sulle ragioni che portano i nomi che contano al rifiuto. Sarebbe meglio cercare di intervenire ora, ammesso che non sia già troppo tardi, prima che uno dei vanti culturali di casa nostra si trasformi in una becera sagra della porchetta per radical chic, prima che il sole tramonti per sempre sul Lido. Piangi, che ne hai ben donde, Venezia mia.