SPECIALE 71a MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
L’occhio e il braccio del drone
Base di numerose teorie sul cinema, lo sguardo spettatoriale impotente e la corrispondenza personaggio/spettatore oggi ritrova eco nell’ultima pellicola di Andrew Niccol, Good Kill.
Aggiornato ai nostri tempi, il concetto viene trasposto nelle operazioni militari USA in Afghanistan, o meglio di chi opera sul campo standosene seduto a casa per pilotare i droni da bombardamento. Quello della pellicola è uno sguardo ibrido, del resto il protagonista ha la possibilità d’intromettersi sul terreno di battaglia perché suo è il dito che preme il grilletto che lancia il missile, ma è proprio il contrasto con l’impossibilità di essere presente sul campo che è causa della sua depressione, lui non vola più, lui simula di volare, non ha più la concreta paura di vivere la guerra. Ma dall’altro lato è l’impossibilità di agire ad essere l’intuizione drammatica di maggior rilievo in Good Kill, le azioni perdono concretezza mentre gli ordini si eseguono, e il maggiore Tommy è uno che gli ordini li esegue. Bombardare nonostante la presenza di civili non è un comando che può esser discusso e ancor più significativa è l’impossibilità d’intervenire quando l’occhio del drone trasmette uno stupro in diretta, l’impotenza di chi osserva è palese. Tutto questo si ripercuote sull’esistenza del protagonista, la sua vita scivola in un nulla privo di reazione, di chi vorrebbe vivere il nucleo famigliare solo nel momento di ritorno dall’azione. Il deserto di Las Vegas stesso diviene specchio di questa piattezza esistenziale, l’esistenza diventa l’artificiale occasione di vita offerta dall’esercito per gli impiegati della guerra. Good Kill, come spesso la carriera di Niccol ha dimostrato nei progetti da lui scritti e diretti, parte con spunti narrativi eccellenti per cedere successivamente sotto gli stessi per colpa di un’articolazione del racconto che tende a disperderli, e in quest’ultima pellicola cade più fragorosamente che mai. Con l’intento di sospendere il giudizio sull’utilizzo dei droni e dell’impegno bellico stesso, al contrario le parole del capitano delineano l’esistenza di un circolo vizioso conflittuale che non può esser spezzato e che per di più non può esser discusso. Lungi dall’essere una critica ideologica la mia invece vuole mettere in mostra invece la contraddittorietà della pellicola stessa: se l’assurdità dei comandi mostra un’impotenza all’agire e l’alienazione di soldati istruiti a combattere davanti a schermi che tutto fanno fuorché donare il peso materiale della morte ritraendo un paesaggio bellico mostruoso, poco comprensibile è la svolta finale dove il drone diviene macchina di giustizia personale per metter fine a crimini lontani. In questo crolla anche il concetto di distacco voyeuristico, elemento principe d’impressione nella pellicola. È vero, il personaggio finalmente agisce, ma per quale significato nemmeno lui sembra saperlo.
Good Kill [id., USA, 2014] REGIA Andrew Niccol.
CAST Ethan Hawke, January Jones, Zoe Kravitz, Bruce Greenwood.
SCENEGGIATURA Andrew Niccol. FOTOGRAFIA Amir Mokri. MUSICHE Thomas S. Drescher.
Guerra, durata 104 minuti.