Da anni si sostiene, a ragione, che le serie televisive si sono rivelate il prodotto narrativo più adatto per ospitare il dibattito politico e il confronto ideologico in America. Il post-11 settembre, grazie tanto alla qualità di scrittura quanto alla rapidità di esecuzione, ha avuto una grande “letteratura audiovisiva” grazie a 24, Brothers and Sisters, Lost, Rescue Me, Damages e decine di altre serie Tv.
E marchi come HBO o Showtime hanno a loro volta avuto il merito di affrontare a viso aperto temi scottanti del presente, trasferendoli a narrazioni di lungo respiro e sostituendo di peso il ruolo del cinema come attore simbolico per la funzione critico-metaforica delle realtà contemporanee. La domanda è: le cose stanno ancora così? Oggi che viviamo un mondo indecifrabile, fatto di tanti conflitti separati e spesso di complicata lettura, fiaccato dalla crisi economica e terribilmente misterioso per i non esperti, le serie Tv mantengono il medesimo ruolo? A giudicare da alcune stagioni recenti di serie molto note, sembrerebbe di no. Siamo, per esempio, ancora scottati dagli incredibili errori di politica internazionale commessi dalla terza stagione di Homeland, dove il passaggio dal traumatico finale della seconda stagione alla prima parte della terza dovrebbe essere garantito da un’alleanza – totalmente incredibile – tra attentatori sunniti e terroristi sciiti. Dove hanno vissuto negli ultimi tempi gli sceneggiatori? Davvero il pensiero americano sulla cultura araba è talmente impreparato che in una delle serie che dovrebbero romanzare gli avvenimenti reali si dà l’idea di non sapere che estremisti sunniti e sciiti stanno dando vita – in Siria e Iraq – a una guerra interconfessionale sanguinaria e atroce?
La nona stagione di 24, almeno, di queste castronerie non ne ha commesse. Eppure – sia pur in una edizione speciale molto apprezzata dalla critica, anche italiana – Surnow e Cochran non hanno trovato di meglio che allineare tutti insieme gli spauracchi americani di questi anni: arabi, cinesi e russi. Motivo della rabbia terrorista? Il solito drone e la solita strage di civili del governo americano, stessa minestra riscaldata di Homeland. Per il resto, l’unico aggancio col presente è il goffo linciaggio mediatico di un personaggio simil-Assange, la cui curva narrativa non spoileriamo per carità di patria. La gioia di rivedere in azione Jack Bauer è stata comunque soddisfatta, anche se del personaggio visionario e trascendentale delle prime stagioni ormai non v’è più traccia (e con lui è sparita anche la speranza di un pensiero narrativo e artistico repubblicano in grado di spiazzare e provocare il noioso democratismo clinton-obamiano).
Per il resto, sembra tutto molto antico, dagli intrighi di potere di House of Cards alle allegorie (pur criptiche quanto basta per intrigare) di The Leftovers. Sembra quasi di essere tornati agli anni Novanta, con versioni più ciniche di West Wing (Scandal o Veep) e millenarismi vari, dominati dall’eminenza grigia di Damon Lindelof. Non è un caso forse che l’unica serie oggi in grado di affrontare la frantumazione bellica e diplomatica che stiamo vivendo dopo le primavere arabe sia Game of Thrones, quella in cui si è meno disposti a rovistare tra i riferimenti al presente. Che invece non mancano, ad analizzare attentamente i dialoghi e i singoli episodi.
D’altra parte, mentre scriviamo queste righe, le alleanze sono ancora cambiate e ora Usa, Iran e Siria sono alleate per fermare l’avanzata dei sunniti dell’ISIS. Grande è la confusione sotto il cielo.