SPECIALE CINEMA RITROVATO 2014
Un cinema tra tradizione e modernità
Una delle sezioni più interessanti della 28a edizione del Cinema Ritrovato è quella dedicata agli anni ’50 del cinema indiano, ovvero la sua età dell’oro.
Con il titolo Classici indiani da salvare appare ben chiaro l’intento della rassegna: una ricerca spinta da una vera e propria etica di conservazione che focalizzi l’attenzione sul recupero di opere fondamentali ancora in attesa di interventi di restauro che ne garantiscano la sopravvivenza e la riscoperta su vasta scala. In India, all’enorme produzione cinematografica da sempre ha fatto da contraltare una mancata salvaguardia di un numero così impressionante di pellicole: basti pensare – come ricorda il fondatore della Film Heritage Foundation e curatore della sezione, Shivendra Singh Dungarpur – che nel 1950 il Paese aveva praticamente già perso il 70-80 per cento dei suoi film. È evidente quindi l’esigenza e l’urgenza di puntare i riflettori su questa realtà tanto prolifica e perciò disorientante. Da dove cominciare allora per intraprendere un percorso attraverso il cinema indiano? Dagli anni ’50, appunto. Momento storico fondamentale per l’India neo-indipendente, fu questo un periodo cruciale per la cinematografia nazionale scossa dai cosiddetti “registi ribelli”, i cui soggetti cominciarono ad affrancarsi dai temi storici e mitologici per avvicinarsi al dramma sociale e alla denuncia collettiva, in un’affascinante fusione tra convenzioni e stili personali già profondamente riconoscibili. Gli otto lungometraggi presentati sono dunque una perfetta radiografia dell’India di quel periodo: lo sfruttamento perpetrato dai grandi proprietari terrieri ai danni dei contadini costretti ad abbandonare i campi in cerca di lavoro nelle città è il tema affrontato da Due ettari di terra (Do bigha zameen, 1953) di Bimal Roy, la pellicola più realista tra quelle proposte, contraddistinta da una umanità derivata dalla dichiarata influenza di Ladri di biciclette e che inaugurò un nuovo modo di filmare; sempre la terra è al centro del soggetto, delle immagini e dei colori di Madre India (Mother India, 1957) di Mehboob Khan, quasi un’apologia della civiltà rurale indiana narrata attraverso l’epopea della famiglia di Radha, donna simbolo di forza e resistenza dell’intero Paese. I conflitti all’interno di una società in cambiamento sono analizzati con un tono più melodrammatico in Sete eterna (Pyaasa, 1957) di Guru Dutt, in cui la sensibilità di un poeta incompreso si scontra con un mondo materialista ed ipocrita contrapposto alla solidarietà e alla compassione di chi ne vive ai margini. E ai margini troviamo anche il famoso girovago creato e interpretato da Raj Kapoor in Awara – Il vagabondo (1951), l’opera che, con la partecipazione al Festival di Cannes del 1953, fece conoscere il cinema hindi al mondo intero. Narrando le avventure di questo Charlot indiano, essa costituisce il primo esempio di commistione tra un realismo sociale, dai toni a tratti grotteschi e teatrali, e l’impianto tradizionale di danze e canti, stravolto dal tocco fantasioso e visionario della famosa scena onirica. Tale rinnovamento formale e visivo caratterizza anche Ajantrik (1957) di Ritwik Ghatak, Madhumati (1958) di Roy, Fiori di carta (Kaagaz ke phool, 1959), in cui Dutt utilizza per primo il cinemascope, nonché il precursore di questo cambiamento: Chandralekha (1948) di S.S. Vasan che rappresenta il primo film spettacolare realizzato in India, grazie ad un efficace intreccio di generi in cui avventurose storie di prìncipi, sullo sfondo di sontuose scenografie, si fanno metafora di questioni sociali: modello di successo per tutto il cinema commerciale a venire.