Tutto così, semplicemente
Il 4 giugno 1994 moriva Massimo Troisi: anche per i miei coetanei la notizia fu triste, soprattutto per il rammarico di non sapere cosa avrebbe ancora potuto regalarci.
Non siamo qua a fare elogi postumi o lacrimevoli, ma si cercherà di trattare il Troisi artista che, partendo dagli sketch con Lello Arena e Enzo Decaro e la loro La Smorfia, arrivò naturalmente al cinema. Personaggio versatile, napoletano doc, sia nella sua vita privata che nello spettacolo, Troisi ha saputo rappresentare i tormenti di una generazione che a posteriori si è resa conto di aver dormito sonni troppo tranquilli. La sua comicità spaziava tra la tradizione partenopea incarnata soprattutto da Totò e dai De Filippo, fino a riprendere alcuni aspetti delle maschere comiche del cinema muto: chiaramente l’ago della bilancia pendeva più sui primi, ma se si pensa alla sua gestualità, soprattutto nei primi sketch cabarettistici, Troisi fu capace di far ridere anche senza parole. Da L’annunciazione a Luna Park a Ketty a Non Stop, giusto per citare alcuni dei più famosi, invase la televisione con i suoi personaggi tragicomici senza essere mai sopra le righe. Arrivata la popolarità, arrivò anche il cinema, come spesso accade ancora oggi con i nuovi cabarettisti con risultati su cui è meglio soprassedere. Debutto trionfante: Ricomincio da tre incassa 15 miliardi di lire, il suo protagonista diventa subito una star e gli italiani iniziano a conoscere una nuova commedia meno “caciarona” ma più verosimile. Nel suo cinema, infatti, si parla di precarietà dei sentimenti e dei rapporti umani, turbamenti emotivi di una generazione che, rispetto alla nostra, poteva ancora illudersi di vivere nella bambagia. Dal suo esordio a Pensavo fosse amore… invece era un calesse le tematiche affrontate sono più o meno sempre le stesse: l’amicizia, l’amore, il mistero donna, la religione e l’elogio del dialetto e dei suoi giochi linguistici. Troisi affronta il suo mondo senza sentimentalismo o melodrammi camuffati da commedia, come per esempio il contemporaneo Francesco Nuti. Da regista enunciava il rispetto del lavoro dell’attore, con la venerazione per le donne, Francesca Neri e Giuliana De Sio su tutte, e che vedeva nella sospetta e comprovata improvvisazione la sua peculiarità – Non ci resta che piangere ne è una prova -, rivendicando una sana artigianalità. Nelle tante interviste rilasciate questa consapevolezza è sempre sottolineata, un’umiltà non ruffiana ma sincera che dichiarava l’incapacità a trattare la regia con tecnicismi ma con la naturalezza del gesto artistico al fine del racconto. Mario Sesti accomuna la regia di Troisi a quella del primo Nanni Moretti: entrambi “scardinano” i dogmi cinematografici in favore del proprio personaggio e della propria storia, ma se Moretti è narciso e autocelebrativo, Massimo è servizievole e timido. La critica ne ha sempre esaltato le doti attoriali ritenendolo uno dei massimi rappresentanti della nuova commedia italiana insieme al vulcanico Benigni e al malinconico Verdone, ma la sua regia è stata poco studiata: ci sarebbe molto da dire specialmente sulla mancanza di stereotipi. Troisi, nel suo piccolo, ci ha insegnato cosa vuol dire amare e quanto conti l’amicizia, senza inutili piagnistei ma con la razionalità surreale che contraddistingueva il suo stile popolare. La vita è difficile e spesso mancano le parole e, pur mantenendosi personaggio, Troisi non è stato una macchietta disinvolta e solare ma un nostro comune amico: banale e esagerato forse dirlo, ma è così.