SPECIALE SPIA E LASCIA SPIARE
Senza tempo
Nella cornice di una Vienna occupata dalle differenti forze politiche del secondo dopoguerra, in un clima losco dove tutto è diverso da come appare, l’americano Holly Martins – scrittore di romanzetti d’avventura – indaga sulla presunta morte del vecchio amico di gioventù Harry Lime, e in parallelo alla polizia d’occupazione inglese guidata dal maggiore Calloway, scoprirà ben presto che Lime è ancora vivo e si muove tra le ombre della città.
Pietra miliare del cinema britannico di fine anni Quaranta, premiato nell’anno della sua creazione dalla Palma d’Oro e da molti altri riconoscimenti, Il terzo uomo di Carol Reed è un film di cui molto si è scritto e parlato, una fucina di aneddoti più o meno irresistibili per il cinefilo assetato di “dietro le quinte” e per lo studioso interessato al mero concepimento estetico: è un’opera memorabile per la sinergia di talenti che vi presero parte, a cominciare dal genio di Orson Welles che, come sempre accade con i capolavori, fu soprattutto un elemento di disordine e rottura, utile a scompigliare i tempi di una produzione tradizionale e ad arricchire di intramontabili vezzi la pur perfetta sceneggiatura di Graham Greene. A Welles viene correttamente attribuita la celebre battuta sugli orologi a cucù che, al di là dell’arguzia implicita, è il tipico segnale di una costante volontà di personalizzare l’oggetto film in quanto stratificazione di differenti letture e punti di vista; stesso discorso vale per le musiche di Anton Karas, semplicemente inedite per l’abbinamento di un romantico omaggio a Django Reinhardt con una storia di mistero e spionaggio. È difficile non ammirare – delle interpretazioni di Welles, Joseph Cotten e Alida Valli – l’attenzione degli attori per il concetto di sguardo: è un film anzitutto di sguardi, Il terzo uomo, una lezione sul noir come cinema fatto sì di dialoghi sempre divisi tra parola (quello che si rivela) e pensiero (quello che si nasconde), ma soprattutto di silenzi, di scambi di occhiate che ora esprimono l’inganno e l’omertà, ora l’umanità e l’innocenza, come per il conclusivo campo-controcampo tra Cotten e Welles nella famosa scena d’inseguimento tra le fogne della città. A Carol Reed, regista forse in parte dimenticato ma qui al suo stato di grazia, va il merito di aver costruito un film cerniera tra epoche e approcci estetici, lavorando sulla straordinaria tessitura compositiva del film, in cui ogni singola inquadratura, grazie all’insistenza dell’inclinazione obliqua dei campi e all’uso espressionista della fotografia di Robert Krasker, suggerisce il fitto sistema di apparenze e disvelamenti che strutturano il racconto e l’ambientazione. Sintesi perfetta tra gli echi delle avanguardie e l’avvento della modernità, Il terzo uomo è, anche per queste ragioni, un film senza tempo.
Il terzo uomo [The Third Man, Gran Bretagna 1949] REGIA Carol Reed.
CAST Orson Welles, Joseph Cotten, Alida Valli, Trevor Howard, Bernard Lee.
SCENEGGIATURA Graham Green. FOTOGRAFIA Robert Krasker. MUSICHE Anton Karas.
Noir, durata 104 minuti.