SPECIALE DAVID CRONENBERG, II PARTE
Voglio sentire la liscia superficie del metallo
“Nuova carne”, quante volte abbiamo visto abbinare questo termine al cinema di Cronenberg; e quanto la delusione dei più si sta mostrando negli ultimi anni nel constatare che questo concetto mal si applica alle ultime opere dell’autore canadese?
Eppure il suo cinema, tracciata una linea (o meglio mappatura) che attraversa gli inizi passando per Crash e giungendo fino a oggi con Maps to the Stars, forse cambia nell’esteriorità con una superficie che non è più quella di seni strisciati sul metallo di una carrozzeria, dove organico e inorganico apparivano legati sia dai sensi tattili che penetrati da viti e chiodi. Ma i germi di un cinema in divenire già erano presenti, da un divismo malato inseguito insensatamente nelle sue accezioni più viscerali, alla riproposizione dello schianto che uccise James Dean come raggiungimento del coito, che corrisponde al disperato inseguimento dello spettro della madre morta di Julianne Moore – quest’ultima vittima di un inventato abuso sessuale proprio dell’ex diva. Fino agli elementi più esteriori, la deformità epidermica che affligge Holly Hunter è presente anche in Agatha di Mia Wasikowska, entrambe con i guanti infilati rifuggono il contatto con la materia per sciogliersi poi nel momento carnale del sesso, esse sono preoccupate per la superficie ma mai nella penetrazione. Due film tanto vicini quanto distanti, disturbano attraverso materialità differenti, guardano al contatto in maniera contrapposta, uno scontro tra organico e inorganico opposto all’inafferrabilità di spettri del passato/presente, comete disgregatesi nel momento prima di schiantarsi. Crash cercava l’orifizio anale con tutti i mezzi: il fallo, le dita, la bocca e la lingua, come una protesi della vera fonte d’eccitazione, la macchina. Maps to the Stars al contrario lo evoca solo con parole ironiche e ridicole di chi può farci passare solo le aspirazioni della propria vita – cioè la carriera – come viatico del successo semplice, sempre che questo non si ostruisca. Crash probabilmente non fu il vero film del nuovo millennio – il successivo eXistenZ infatti coglierà la compenetrazione tra organico e digitale – ma piuttosto il perfetto film di fine millennio dove la paura per la perdita della sostanza delle cose di un’archiviazione sempre più immateriale cercava invece nella materia meccanica unico appiglio al non-trapasso, perché tecnica sorpassata quindi inoffensiva. Un cinema quello di Cronenberg che ora non trova – o non vuole più trovare – la superficie delle cose, attraverso il dettaglio, per essere vittima – o mostrare le vittime – di una cosmopolita incarnazione dell’immateriale.
Crash [id., Canada/Gran Bretagna 1996] REGIA David Cronenberg.
CAST James Spader, Holly Hunter, Elias Koteas, Rosanna Arquette.
SCENEGGIATURA David Cronenberg. FOTOGRAFIA Peter Suschitzky.
MUSICHE Howard Shore.
Drammatico, durata 98 minuti.