Nicole e la sua Grazia ritrovata
Chi mi conosce, lo sa; gli altri lo scopriranno adesso. La mia passione per il cinema è nata dopo la visione di un film, Moulin Rouge!, di Baz Luhrmann e, soprattutto, dopo aver ammirato e amato la sua attrice protagonista: Nicole Kidman. Dopo quel giorno, la mia vita cambiò.
Mi ritrovai in un vortice fatto di film, articoli di giornale, interviste, foto, alla ricerca di qualsiasi cosa mi facesse scoprire da vicino i segreti di colei che mi aveva, con forza, trascinato nel suo mondo magico e messo il mio sottosopra. Tra una pellicola e l’altra mi imbattei in un’attrice che aveva saputo trasformarsi da semplice ragazza australiana acqua e sapone a diva di Hollywood. Se inizialmente in molti la vedevano semplicemente come moglie di Tom Cruise, è il ruolo offertole da Gus Van Sant in Da morire (1995) ad aprirle le porte del successo come attrice. L’indimenticabile Suzanne Stone, che le è valso il primo Golden Globe come miglior attrice, la consacra una delle più promettenti attrici femminili, tanto che sia Jane Campion che Stanley Kubrick la vollero nei loro film, Ritratto di signora (1996) e Eyes Wide Shut (1999). È il 2001, però, l’anno della svolta. Il divorzio da Cruise, invece che abbatterla, la lancia nell’olimpo di Hollywood, con due ruoli ancora oggi memorabili: la cortigiana Satine di Moulin Rouge! e la Grace di The Others. Recuperati tutti i film precedenti e ormai in pari con la carriera della Kidman, la mia era diventata un’ossessione, tanto che sia amici che parenti mi chiedevano: “Come sta Nicole? L’hai sentita?”. Quello che era iniziato quasi per sbaglio mi aveva regalato un sogno in cui credere e un’attrice su cui far affidamento. La sua apparente bellezza glaciale venne messa a dura prova in The Hours, ma la sua Virginia Woolf era talmente profonda che le consegnò il Premio Oscar. Ormai si potevano dire tante cose, ma non che la Kidman non fosse un’attrice versatile, che riesce a passare con disinvoltura dal film in costume al thriller politico, dalla commedia al film d’autore regalando ogni volta qualcosa in più ai suoi personaggi. La sua trasformazione, anche fisica, aveva sempre una sorta di aurea magnetica, tanto da non riuscire a distogliere lo sguardo dallo schermo. Un giorno, però, le cose cambiarono. Come nelle più belle favole, ci sono sempre le pagine negative da leggere. Iniziarono ad arrivare critiche per alcuni suoi film non riusciti, come Vita da strega (2005) e Invasion (2007), o per aver ritoccato il suo viso perfetto con il botulino. La sua carriera subì una svolta improvvisa, tanto che in molti la diedero per finita. Gli anni passarono e i film convincenti furono pochi, ad eccezione di Rabbit Hole (2010), che lei stessa ha prodotto con la sua Blossom Film e che le è valso la terza nomination all’Oscar. La salita, però, era appena incominciata. Il ruolo della rivincita doveva essere proprio Grace di Monaco. Grace, un nome a lei caro per averlo interpretato sia in The Others sia nel capolavoro di Lars Von Trier Dogville (2003). Un nome che, nonostante tutto, le ha sempre donato molto e che questa volta le regala una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni: il monologo finale ne è la dimostrazione. Io come ho vissuto tutto questo? Semplice. Anche se non sempre ho condiviso le sue scelte, non mi sono mai tirata indietro, pronta a sostenerla e difenderla, ma aspettando con impazienza il giorno di dire: “Ve l’avevo detto che sarebbe tornata!”. Dopotutto, è così che si fa con gli amici.