L’Europa in musica
Da decenni la parola primavera qui nel Vecchio Continente fa rima con Eurovision Song Contest. Purtroppo ancora una volta nonostante la ben augurale corona d’alloro dorata e la straordinaria disinvoltura della grintosa Emma, il Bel Paese non è riuscito a portare a casa la vittoria.
Anche se quest’edizione, come quelle precedenti, è stata adombrata dai forti sospetti di cordate sovranazionali attuate per scambiarsi i favori nel televoto, la kermesse si riconferma comunque come una vera e propria vetrina musicale europea dove – sia artisticamente che biograficamente parlando – c’è davvero spazio per tutto e tutti: l’inedito country elvetico del polistrumentista Sebalter, il maestoso arrangiamento orchestrale dell’elegante azera Kazimova, le platinate gemelline russe che si rifanno un po’ a Britney e un po’ agli ABBA, la voce cristallina dell’ex carpentiere norvegese, il disco-pop dell’avvocatessa rumena che assiste i meno abbienti e il folklore tedesco tutto al femminile. All’appello non mancano nemmeno svariati brani che, pur messa da parte la malizia, sembrano davvero troppo affini a cose già note. Sto pensando alla ballata in stile Sting degli olandesi, al ritornello francese fotocopia della hit della baby star Jordi e a Basim, paladino danese che scimmiotta Bruno Mars con tanto di performance dance coi cloni dei Jackson 5. Il brano dei Pollapönk sottopone all’attenzione generale il problema dei pregiudizi verso l’altro, anche se è grazie a Conchita Wurst, la cui traduzione letterale dell’allusivo nome d’arte lascia ben poco spazio all’immaginazione, che il messaggio di tolleranza viene totalmente palesato. Presentandosi sul palco in sembianze femminili ma adornato da una folta barba scura, la drag queen è ben conscia di catalizzare tutta l’attenzione: anche se poi è con le doti canore e il testo autobiografico inneggiante alla libertà personale che riporta l’Austria in vetta al podio dopo quasi metà secolo. Predominanti, forse mai come in quest’edizione, i testi in inglese: sembra proprio che gli interpreti siano sempre meno avvezzi a rischiare lo scoglio dell’incomunicabilità linguistica. E come dargli torto, visto che nonostante l’accattivante sound montenegrino o l’originalità del rap polacco accompagnato dalla danza delle ammiccanti villiche multicolori anche stavolta i migliori piazzamenti sono stati incassati proprio da chi cantava nella lingua franca mondiale. Poca fortuna riscuote pure la tattica di alternare la proprio madrelingua a quella inglese, adottata dalla carismatica flautista slovena Tinkara Kovac e dalla potente ugola d’oro spagnola. La regia danese, puntando tutto su uno spettacolare palco che omaggia i celebri Lego costato “solo” 12 milioni di euro, è riuscita a ovviare alla mancanza degli astronomici investimenti delle edizioni precedenti. Scaltro autoreferenzialismo o capacità di ottimizzare il capitale disponibile? La verità, forse, sta nel mezzo visto che non solo alcuni paesi hanno ritirato dalla competizione i loro portabandiera musicali a causa della crisi ma sembra pure che il festival abbia fatturato agli interpreti il costo delle animazioni scenografiche viste nelle loro performance (tra le più riuscite, c’è sicuramente quella montenegrina con tanto di pattinatice che illumina letteralmente il palco al suo passaggio mentre la medaglia di legno se l’aggiudica l’Ucraina con il suo comico “criceto umano”). Insomma, è proprio grazie a una kermesse musicale come questa se l’Europa riesce a prendere una – seppur temporanea – boccata d’ossigeno dai gelidi venti da guerra fredda e dall’attuale crescente ondata di euro-scetticismo che di recente sembrano essersi alzati nuovamente.