La terza via
Che ruolo assegnare alla figura di Carlo Mazzacurati nella storia del cinema italiano contemporaneo? Un ruolo importante, senza alcun dubbio: negli anni in cui, a parte Amelio e Moretti, ben pochi sono i cineasti che riescono a realizzare film davvero memorabili, comparabili per grandezza agli illustri e geniali registi dei decenni precedenti, Mazzacurati, con la forza nascosta della mitezza e un grande coraggio, è l’anello di congiunzione tra la migliore commedia, leggera, spensierata, mai volgare, e il dramma d’autore più raffinato, intimista ma mai involuto.
Alla prima categoria, quella delle commedie scanzonate, appartengono lo spassosissimo La lingua del santo (2000), con una delle più affiatate tra le coppie di attori del cinema di Mazzacurati, gli strepitosi Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio, e il divertente, metacinematografico La passione (2010), con la pluripremiata interpretazione di Giuseppe Battiston e un Silvio Orlando impeccabile, come sempre. Proprio Orlando, come Mazzacurati a suo agio tanto nei drammi quanto nelle commedie, è il personaggio principale anche di Un’altra vita (1992). Ambientato in una Roma davvero spaventosa e amarissimo proprio come l’anticipatore Notte italiana (1987), Un’altra vita è ascrivibile al secondo gruppo di film del regista padovano, cioè quello dei drammi d’autore, e vanta un sorprendente Claudio Amendola. Altrettanto sorprendente è Diego Abatantuono, che duetta con un altro degli attori-feticcio della grande famiglia di complici di Mazzacurati, Roberto Citran, nel riuscito film di viaggio e amicizia Il toro (1994), musicato da Ivano Fossati, come A cavallo della tigre (2002) e come quel bel racconto di formazione, purtroppo poco visto, che è L’estate di Davide (1998). Va detto che il cinema di Mazzacurati, prevalentemente realistico e concreto, ma con notevoli momenti lirici, si distingue per un’attenzione alla colonna sonora e ai valori estetici della fotografia che non si trova facilmente nei prodotti italiani medi, e spesso neanche in quelli più ambiziosi. A testimonianza di una disinvoltura formale significativa, va sottolineato, quindi, come nell’ultimo, postumo, lieve La sedia della felicità (2014) Luca Bigazzi si allontani dall’aspetto notturno, cupo di molti film dell’ironico-malinconico Mazzacurati, per conferire alle immagini una luminosità e una solarità inconsuete e oniriche, surreali o favolistiche. Un’altra storia di simpatici poveracci in cerca di riscatto dalla propria mediocrità, raccontata con umanissima partecipazione, senza giudicare presuntuosamente dall’alto in basso i personaggi. Come nello splendido Vesna va veloce (1996) e nell’azzeccato La giusta distanza (2007), Mazzacurati, da sempre affascinato dall’Europa dell’Est, in qualche gag del suo ultimo film non nasconde la presenza del razzismo contro gli extracomunitari nella pur civile Italia settentrionale: il suo rimane un esempio di cinema radicato nel territorio, mai provinciale, sempre sul pezzo. Gliene siamo grati.