Specchio delle mie brame, dimmi che ha fatto mio padre
Il dilemma in Oculus non è tanto la reale natura delle immagini che vediamo, bensì da cosa e da chi queste derivino. L’orrore cui i due fratelli si devono confrontare viene da sé stessi, da un passato contiguo percettivamente al presente tanto da rendere indistinguibile l’evento del trauma dalla sua odierna proiezione.
Ciò che più colpisce in Oculus di Mike Flanagan è la capacità di essere una pellicola in grado di dare un gran senso di continuità con una sovrapposizione di tempi negli spazi, le due assi inevitabilmente si sovrappongono in un continuum che porta al collasso la percezione di fatti tra loro lontani, ma che distinti non sono. Il passato è il trauma di due ragazzini salvi dal massacro famigliare perpetrato dal padre, mentre il presente è la decisione – non proprio unanime – dei due, ormai divenuti adulti, di documentare e distruggere quello che sembra essere la fonte del male e follia che ha assalito la propria famiglia undici anni prima: uno specchio spettrale causa di un orrore sempre pronto a perpetuarsi. Lo specchio è il luogo dove ognuno guarda sé stesso, lo spazio metaforico di un’immersione nel proprio io, lo specchio come luogo perché fondamentalmente è lo spazio della casa a diventare tempo di azioni che convivono nei protagonisti, così tanto mentalmente da diventare fattuali, è l’incapacità di scindere i diversi piani ad essere l’arma di un oggetto misterioso e disturbante come lo specchio, ma soprattutto quella di poter essere solo la convinzione di chi ha vissuto il trauma e che nel tempo ha iniziato a sperare in esso come frutto di un altrove mostruoso e spettrale e non originario da un folle impulso umano. È in questo che il chi e il cosa originari del visibile superano l’importanza della sua natura per essere frattura sul timore di un proprio vissuto, che forse è rivissuto per rinnegarlo facendolo diventare via via un nuovo orrore, più grande ma in grado di riscattare il passato sconfiggendolo, o forse no. Colui che ricorda condiziona la visione facendo sì che il ricordo riaffiori in un continuum indistinguibile tra i due fratelli, continuum come quello sonoro, attento a non eccedere mai nei toni ma in gradi di creare un ambiente costante e opprimente. Oculus si fa apprezzare soprattutto per la propria sincerità di film di genere, senza pretese se non quella di trasportare lo spettatore nel dubbio della percezione del reale, in un moltiplicarsi di piani temporali e identitari senza creare mai una corrispondenza fattuale ma sempre come specchio disordinatamente ricomposto che riflette una spettrale follia umana.
Oculus [id., USA 2014] REGIA Mike Flanagan.
CAST Karen Gillan, Katee Sackhoff, Brenton Thwaites, James Lafferty.
SCENEGGIATURA Mike Flanagan, Jeff Howard. FOTOGRAFIA Michael Fimognari. MUSICHE The Newton brothers.
Horror, durata 105 minuti.