Il racconto a metà del “luogo cieco di un antico sogno” (Luce Irigaray)
Il 1972 è stato l’Anno Domini, si perdoni la blasfemia, del porno: Gola profonda, il primo film hardcore, sdoganato dal circuito a luci rosse, uscì in sala e fu un successo. Linda Lovelace, nata Linda Boreman, è il money shot più caldo del cinema porno, che ci fa comprendere la relazione stretta tra cultura della merce e piacere sessuale.
Erano gli anni dell’emancipazione femminile, della libertà sessuale, della scoperta del proprio corpo e la pellicola ha saputo rappresentare tutte queste istanze. Lovelace di Robert Epstein e Jeffrey Friedman (Lo schermo velato, The times of Harvey Milk e Urlo), racconta in parte questo e in parte il dramma personale dell’attrice/Amanda Seyfried (grazie al libro autobiografico Ordeal).
I registi dividono la pellicola in due parti. Nella prima il racconto di Linda, sposata con Chuck Traynor, diventata diva del cinema a luci rosse, e la dimensione metacinematografica (l’inizio del film coincide con quello di Gola profonda e lo scopriamo solo quando ci accorgiamo di essere in una sala cinematografica). Nella seconda parte si narra il dramma che sta dietro alla sua vita, fatto di botte, coercizione e prostituzione, perpetrate dal coniuge. Se il primo tempo, tutto luci, riflettori, colori sgargianti, rappresenta il livello “superficiale” d’analisi, il secondo esprime un livello più nascosto, fatto di buio, porte chiuse, paura e tensione. Se il primo racconta la fellatio d’oro del cinema porno e della donna che in pochi giorni raggiunse fama e successo, il secondo analizza la sua solitudine e il suo inferno. Se il primo è il racconto iconico, pop della “scientia” sexualis, rigirando alcune sequenze di Gola profonda, notiziari televisivi e talk show d’epoca, il secondo tra interrogatori e interviste indaga le ombre della pornodiva. Epstein e Friedman giocano, disorientando, con flashback e flashforward, mostrando un’assenza di profondità nella storia dell’attrice e della donna, banalizzando una vicenda che è più complessa e ricca di contraddizioni. Linda è simbolo di tutte le donne, dell’industria porno, della libertà sessuale, feticcio (sappiamo quanto di marxista e freudiano ci sia in questo concetto legato a quello di “merce”) del piacere “pervertito”, perturbante e libertario/liberticida – a seconda di come la si pensi – del sesso orale. Lovelace è un’occasione mancata, o meglio non sfruttata fino in fondo. Non coglie totalmente lo spirito dell’epoca, non riesce a sviscerare né la portata del film cult – come invece ha fatto Inside Gola profonda –, né il nuovo potere della donna su di sé, sul proprio corpo, sulla propria sessualità, né la paradossale prigionia di Lovelace, feticista selvaggia, per dirla come Marx, inchinatasi al potere – di genitori, marito, sguardo voyeuristico e industria del porno – e incapace di svincolarsi da esso.
Lovelace [id., USA 2013] REGIA Robert Epstein, Jeffrey Friedman.
CAST Amanda Seyfried, Peter Sarsgaard, Juno Temple, Sharon Stone, Adam Brody, James Franco.
SCENEGGIATURA Andy Bellin (dall’autobiografia Ordeal di Linda Lovelace). FOTOGRAFIA Eric Alan Edwards. MUSICHE Stephen Trask.
Biografico/Drammatico, durata 92 minuti.