A PROPOSITO DI FERZAN ÖZPETEK…
Melodrammamore: ovvero come imparai a non cadere nella trappola di un cinema finto alto
Allacciate le cinture conferma che il cinema di Ferzan Özpetek è un cinema di luoghi ricorrenti, visivi e tematici. Özpetek è anche il regista simbolo, nel bene e nel male, di buona parte della produzione italiana degli ultimi venti anni, amata da un certo tipo di pubblico e bersagliata, con più di un buon motivo e con qualche prevenuta esagerazione, da una buona fetta della critica.
Il regista d’origine turca è infatti diventato l’emblema di quel cinema italiano genialmente definito da Vincenzo Buccheri come “neobaricco”, conosciuto anche come medio autoriale o, più ironicamente, come “il cinepanettone per la lettrice del Mereghetti”: ambientazione e personaggi piccolo-medio borghesi, uno stile elegante e pomposo sostenuto da una fotografia calda e da una colonna sonora affabulatoria e continua, crisi personali e private, soprattutto nei rapporti di coppia, sentimentalismo spinto, insistenza un po’ compiaciuta ed esibita, tale da apparire ricattatoria, su disgrazie e tragedie, oltre agli orizzonti spesso autoreferenziali. Tipici di Özpetek sono anche la coralità del racconto, la ricorrenza di personaggi e tematiche omosessuali e più piccoli elementi scenici come le allegre tavole imbandite. L’autore italo-turco è comunque più talentuoso e personale di buona parte degli altri registi “neobaricchi” di cui è considerato il capofila: nelle sue opere infatti non mancano momenti di ottimo cinema – Özpetek sa come usare bene la macchina da presa – seguiti da scene imbarazzanti, banali o irritanti nel sentimentalismo ruffiano e nel patetismo insistito (basti vedere Saturno contro, una sorta di compendio del suo meglio e del suo peggio). Il suo cinema si nutre perlopiù del melodramma sanguigno, più controllato nella prima parte della carriera (La finestra di fronte), sempre più eccessivo nello stile, nei contenuti e nella narrazione nella seconda (Cuore sacro e Un giorno perfetto, il suo peggiore, al limite della pornografia intellettuale), con costanti riferimenti alla commedia, genere cui è approdato con lo stonato Mine vaganti e col più compiuto Magnifica presenza. Ora, il problema non è tanto la qualità dei singoli film, non sempre bassa, quanto l’impatto del cinema di cui Özpetek è simbolo nel suo complesso: questo è un tipo di cinema medio, che però, e qui sta il punto, non ha l’onestà di presentarsi tale, cercando continuamente di darsi una patente di nobiltà e raffinatezza e di mostrarsi più alto di quello che in realtà è. Questo anche un po’ per accontentare le aspettative e l’ego del pubblico di maggior riferimento, magari colto e sicuramente non cinefilo, allergico per pregiudizio ai generi, radical chic e più “mid cult” dei prodotti che consuma. Questo tipo di cinema medio che non ha il coraggio di presentarsi tale ha quasi monopolizzato la nostra produzione, con gli effetti di anestetizzare il vero “cinema d’autore” e di tramortire il già agonizzante sistema dei generi. Certo, dare la totalità delle colpe di questo e dei piccoli orizzonti dell’immaginario del nostro cinema a questo tipo di film sarebbe eccessivo e non terrebbe conto di altre cause, ma certamente il “neobaricchismo” di Özpetek e dei suoi sodali ha una responsabilità non irrilevante.