Mentre scrivo queste righe, sta per aprirsi a Bologna un convegno – l’ennesimo (può permettersi di dirlo chi scrive, che ne è l’organizzatore) – dedicato alla critica cinematografica. Per puro caso, nelle stesse ore, si terrà al Piccolo Teatro di Milano un incontro simile, concentrato sulla critica teatrale, e in parte letteraria. Le premesse di entrambi i consessi sono le medesime: che cosa è cambiato con l’avvento del web? Che risultati trarre dall’avvicinamento sempre più evidente tra competenza/reputazione del singolo e affidabilità delle testate? Quale valore attribuire alla democratizzazione del giudizio?
Si tratta di questioni più volte affrontate, anche qui su Mediacritica. Anzi, questo stesso soggetto online è la risposta alle resistenze che ancora albergano nei confronti della critica non cartacea o comunque non “autorizzata”. Rimane, tuttavia, uno scoglio – di cui non ci eravamo del tutto accorti – che speriamo emerga in questi convegni, e magari anche nel dibattito generale. Mi spiego: fino ad oggi la gran parte delle preoccupazioni nei confronti della critica “dal basso”, indipendente e autarchica, o della quantità di recensioni vaganti sul web, era l’enciclopedia del critico, la sua competenza storiografica, la sua formazione. Mediacritica è nata cercando di dare una risposta a questi dubbi, come progetto formativo, e poi si è trasformata in testata quando i suoi membri sono stati (e si sono) considerati maturi per procedere con autorevolezza a coprire uno spazio editoriale.
Mi sembra che la battaglia non sia vinta di per sé (ancora tanti sono i siti dove si leggono sconcezze e superficialità), ma il problema si è posto e ha portato a una evidente maturazione della scrittura online. Ora se ne apre un altro – lo scoglio di cui parlavo: su quali basi giudichiamo un film?
Non basta conoscere la storia del cinema, essersi dotati di un canone, reputarsi più o meno cinefili. Ci vuole anche un bagaglio estetologico, una riflessione sui propri giudizi di valore, un’idea di dove collochiamo il prodotto cinematografico in un contesto culturale. Questo nodo, sia chiaro, è quello della critica in generale. E tutte le volte che ci si è – giustamente – scagliati contro le insufficienze della critica quotidianista, era per protestare contro l’arretratezza metodologica dei titolari di rubrica. Una volta superata la generazione dei critici eruditi (da Cosulich – ancora in attività – a Kezich, da Casiraghi a Moravia), è stato difficile sostituirla con un’altra dagli strumenti ammodernati e contemporanei. Ed è lì che è nata la diarchia con la critica specializzata, e in un secondo tempo con la critica web.
Ma quest’ultima, appunto, è dotata di quegli strumenti? In buona sostanza: sa quel che fa? Senza un sostrato di letture forti intorno all’estetica, alla sociologia dei media, alla filosofia delle arti, si può certamente fare buona critica ma difficilmente ambire ai livelli più alti. Non si chiede di seguire ossessivamente il dibattito, spesso torrenziale, di ambiti disciplinari contigui. Eppure, specialmente oggi che un film abita un ecosistema mediale molto complesso e spesso intrecciato, essere fermi a Eco e McLuhan, con pallide reminiscenze universitarie, non è di grande aiuto.
A volte fermarsi qualche mese per un pit stop di teoria e metodologia può rivelarsi a dir poco rigenerante.