Capitolo 1: per lunghi ed appassionati anni di autismo cinefilo, sono stato pervicacemente contro la visione delle serie tv. Solo Cinema per me, grazie. Che sciocchino, si dirà, ma dalla mia ho buone – credo – attenuanti generiche.
Il mio imprinting è stato devastante: alla tenera età di sette anni ho assistito allo straripante Twin Peaks, seduto sul divano di casa fra due genitori totally addicted; a dieci è stata la volta di X-Files, che nella mia testa assomigliava più del necessario ad un programma fondato su eventi “reali” e documentati; e infine, nel 1996, è iniziata la mia lunga storia d’amore con E.R. – Medici in prima linea. Non avevo occhi che per lei, bevevo ogni singola puntata d’un sorso, come di fronte ad un oracolo e – non è un’iperbole – posso dire di aver assistito a tutti i 331 episodi al loro primo passaggio tv. Una Cura Ludovico che stenderebbe chiunque, e che mi ha allontanato da qualunque altro tipo di fruizione televisiva che non fossero i 20 minuti dei Simpson e di Willy, il principe di Bel-Air. Alla fine di E.R. (che, vale la pena ricordarlo, segna la conclusione della seconda Golden Age del piccolo schermo, quella della tv come esperienza condivisa da milioni di persone) il lutto è stato gigante, e non ho fatto che rifugiarmi in blandi palliativi ricevendo solo delusioni dai vari Dr. House, Grey’s Anatomy, Mental. Nel mio slancio sentimentale decisi che non avrei avuto altra serie tv all’infuori di E.R., e mi auto-convinsi che non ero portato per la dipendenza da telefilm. Capitolo 2: ho sempre creduto che il Cinema fosse un’Arte superiore, il modello audiovisivo per eccellenza. Poi ho scoperto Breaking Bad. Un’overdose istantanea: cinque stagioni in due mesi, ciclici scoppi di pianto e una ridicola immedesimazione con il protagonista Walter White/Bryan Cranston. Ovunque andassi ero un drug dealer sprezzante del pericolo. Per la prima volta ho compreso a fondo che una serie tv può essere di gran lunga meglio di un film. In Breaking Bad mi piace vedere sia il momento di maggiore crisi della serialità (lo sciopero degli sceneggiatori del 2008) che la rinascita e il trionfo di un medium che concede più sperimentazione e creatività rispetto ai paletti dell’opera cinematografica, costretta in logiche di mercato spesso castranti e omologanti. Belle parole per dire che ci sono ricascato, ma che forse stavolta non intendo disintossicarmi. Basta cambiare punto di vista: se è vero (come sostiene la perfida Cameron Diaz di The Counselor) che la nostalgia guarda al passato nella speranza che quel passato ritorni, occorre avere la forza di non voltarsi più indietro. Bisogna andare orgogliosamente avanti… dritti sparati verso la prossima sconvolgente dipendenza seriale.