Non crediamo in niente
Molto amati anche dai cinefili più esigenti, pur appartenendo nei fatti al sistema hollywoodiano, Joel e Ethan Coen sono riusciti, in trent’anni di carriera, a distinguersi per talento, creatività, versatilità.
Una carriera di successo, stilisticamente al passo coi tempi: se si pensa che hanno collaborato con il Sam Raimi de La casa e che Mister Hula Hoop è stato prodotto da Joel Silver, si deduce che il loro cinema si sviluppa negli anni Ottanta del postmoderno e ne ha molte caratteristiche, dal disimpegno ludico alla disinvoltura nell’affrontare i generi con ironia, disincanto e gusto del nonsense, senza la nostalgia che caratterizzava la generazione precedente, quella della New Hollywood. I Coen si cimentano in maniera originale con l’ormai defunto western (Il Grinta), con il film di gangster (Crocevia della morte), con il neo-noir (Blood Simple, L’uomo che non c’era), con il poliziesco (Fargo). Ma, nella tradizione dei grandi umoristi ebraici, primeggiano nella commedia (Il grande Lebowski innanzitutto, ma anche Arizona Junior, Burn After Reading e l’ingiustamente bistrattato Ladykillers), dove perdono finalmente quella freddezza da primi della classe che fa perdere vitalità e passione ai loro film.
Con Quentin Tarantino hanno in comune l’ottimo gusto nello scegliere i brani delle colonne sonore, ma, a differenza di Tarantino, i maniacali Coen non mescolano disordinatamente canzoni di varie epoche. Ogni loro film, invece, è una perfetta ricostruzione d’epoca, un viaggio nella storia statunitense, anche musicalmente. Il rock del Grande Lebowski e di A Serious Man, il country di Fratello, dove sei?, la musica colta nell’Uomo che non c’era, la musica nera in Ladykillers, fino al folk dell’ultimo A proposito di Davis.
Un altro dei meriti dei Coen è il gran lavoro sugli attori. Non vale la pena di ricordare tutte le grandi interpretazioni dei protagonisti dei loro film, ma di sottolineare come a fare la differenza siano soprattutto i caratteristi, anche sconosciuti, scelti per le piccole parti, scritte con la stessa attenzione e acutezza, nei dialoghi arguti quanto nei comportamenti. Una precisione necessaria a rendere credibili universi da cartone animato, deformati anche visivamente (si pensi all’utilizzo frequente delle lenti grandangolari), che seguono, anche negli sviluppi narrativi, geometrie alternative alla linearità delle storie di formazione del cinema americano. Nei film dei Coen, infatti, sono il cerchio di Mister Hula Hoop e l’imprevedibile palla da bowling de Il Grande Lebowski il simbolo dell’andare a vuoto dei personaggi e della mancanza di senso dell’esistenza, della crisi del soggetto e dell’individuo. Per citare Bruno Fornara, “non ci si chiede più chi è mai il soggetto ma che cosa è: e, a guardarlo, ci si accorge che la cosa che è è corpo, mente, macchina, stupidità e opacità”. “Una soggettività che non sa più essere «attore» della propria storia, un’umanità che ha perso l’attitudine ad agire in maniera cosciente e responsabile, in linea con quella «stupidità» costitutiva che attraversa tanto cinema americano di questi anni, da Tarantino a Forrest Gump”, scrive Michele Fadda. C’era proprio bisogno dell’intelligenza così spietata di Joel e Ethan Coen per far arrivare una dose di salutare pessimismo al pubblico ben poco riflessivo del cinema contemporaneo.